Magari il commissario Paolo Gentiloni esagera quando dice che, dopo l’euro, siamo di fronte al passaggio «più rilevante nella storia della comunità europea». Ma di certo il presidente del consiglio Conte, ieri mattina sceso dall’aereo e ricevuto al Quirinale da Mattarella, se non la guerra, ha però vinto la prima, campale battaglia. Dimostrandosi un coriaceo mediatore, qualità del resto ampiamente sperimentata nel suo ruolo di capo equilibrista dell’inedita maggioranza che lo sostiene.

Politicamente, guardando al cortile di casa, la missione compiuta al tavolo europeo rafforza il governo e divide le opposizioni di centrodestra.

L’intesa raggiunta a Bruxelles tra i 27 è storica nel senso che ribalta la filosofia dell’austerity perché, per la prima volta dai tempi di Maastricht, si approva l’emissione di un debito comune europeo, con i deficit dei paesi che si gonfiano come neppure il vecchio lord Keynes avrebbe immaginato.

Storica non fosse altro perché lo è la fase mondiale, con una guerra, una grande guerra, con i suoi 600mila morti e il crollo delle economie globali, già devastate dalla grande crisi del 2008.

L’Italia ne ha rappresentato l’epicentro in Europa, con le sue decine di migliaia di vittime e l’economia a picco. E proprio per questo è risultata la maggiore beneficiaria del Next generation Eu, spuntando 36-38 miliardi in più dell’annunciato prestito (praticamente un Mes, sarà un caso o forse no).

Lo scontro, durissimo, tra l’Europa del Nord e quella del Sud, avvalora il risultato generale della lunga maratona bruxellese, dove a guidare le danze sono stati i leader liberal-popolari: da Merkel a Macron, da von der Leyen a Michel, con le socialdemocrazie assenti (a parte lo spagnolo Sanchez e la giovane premier finlandese schierata però sull’altro fronte a sostegno degli «avari»). Assenti perché da tempo inesistenti nello scenario terremotato del Vecchio Continente.

Dunque arrivano i soldi, e di conseguenza finiscono gli alibi. Sulle spalle del sistema-paese (che non c’è) cade da domani la responsabilità di cambiare profondamente la società italiana. Pur con le insidie contingenti (il freno al finanziamento che può essere ritirato su richiesta di un governo) e le trappole strategiche (la spada di Damocle del fiscal compact).

Ad essere richiamata in campo adesso è la politica con progetti, visioni, scelte, priorità.

I ragazzi potranno avere un presente e un futuro nella scuola e nella società? L’ascensore sociale ricomincerà a muoversi contro le disuguaglianze che fanno dell’Italia la maglia nera nelle classifiche? Le tasse le pagheranno sempre i soliti noti? Il neoliberismo finirà nella vetrina del modernariato? I favori si trasformeranno in diritti? Le donne potranno lavorare e fare i figli, o non farli, come preferiscono? Gli anziani potranno sperare di avere una buona e gratuita assistenza senza finire la vita in un lurido cronicario? I malati gravi potranno sperare di ricevere un esame diagnostico senza cominciare a morire in una lista dei dimenticati? E come riusciremo a toglierci di dosso l’immagine di quelli che i fondi strutturali non sono mai riusciti a spenderli?

Il tempo delle risposte è arrivato.

Naturalmente la valanga di miliardi non è la bacchetta magica che d’incanto rivoluzionerà un paese fermo da più di vent’anni, ma offre, questo sì, la concreta possibilità di fare investimenti sui terreni essenziali della ricostruzione, del resto indicati, e per fortuna, dalla stessa Commissione europea.

Probabilmente hanno ragione quegli economisti che valutano l’accordo raggiunto più per il valore simbolico che per il reale peso del Recovery fund (per via delle lentezze, dei piccoli passi che lo accompagneranno, dei freni più o meno light, dei tagli previsti alle altre voci del Bilancio europeo).

Ma forse mai come in questa epoca di post-pandemia, mai come in questo 2020 di sofferenze e di precari equilibri mondiali, i simboli, cioè il modo più forte di comunicare un’idea, sono stati così importanti.