«Assorbire più carbonio va bene però non basta»
Chi ricorda il bel racconto di Primo Levi Viaggio di un atomo di carbonio «inchiodato da un raggio di sole» a una foglia, poi finito nell’humus, di nuovo in viaggio nel vento e poi sciolto nell’acqua di mare… può avere un’idea del lavoro di ricerca di Susan Trumbore, una delle più importanti scienziate del ciclo del carbonio, i cui meccanismi sono fondamentali per comprendere le dinamiche dei cambiamenti climatici.
TRUMBORE E’ DIRETTRICE DELL’ISTITUTO di Biogeochimica del Max Planck Institute di Jena (Germania) e ordinario di Scienze della terra alla Irvine University of California. Per il suo «eccezionale contributo allo studio del ciclo del carbonio e dei suoi effetti sul clima, avvalendosi in modo pionieristico delle misurazioni del radiocarbonio nella ricerca sul sistema Terra», si è aggiudicata uno dei più importanti riconoscimenti per la ricerca scientifica, il premio della Fondazione Balzan.
Professoressa Trumbore, che cos’è il ciclo del carbonio e perché è così importante per capire come sta cambiando il clima?
Su scala globale, il ciclo del carbonio descrive i processi di scambio del carbonio tra l’atmosfera, la terra e il mare e le trasformazioni che il carbonio stesso subisce dalla forma inorganica, come quando in atmosfera costituisce con l’ossigeno l’anidride carbonica (CO2), a quella organica quando crea le molecole degli esseri viventi. È importante capirne le dinamiche perché circa il 50% della CO2 che viene emessa non rimane in atmosfera ma si dissolve per metà circa nell’oceano e l’altra metà viene assorbita dal suolo o dalle piante. Grazie al radiocarbonio noi riusciamo a tracciare e a misurare per quanto tempo il carbonio rimane «intrappolato» negli ecosistemi terrestri, cioè quanto tempo gli atomi di carbonio che compongono la CO2, assorbiti dalle piante o dal suolo, rimangono effettivamente nella vegetazione e nel suolo prima di tornare in atmosfera. Questo processo può verificarsi in tempi diversi, perché una parte di carbonio può essere utilizzato dalle piante per il loro metabolismo, una parte può essere mangiata da un animale, un’altra ancora può finire nel tronco di un albero dove può rimanere per secoli prima che l’albero muoia, si decomponga nel suolo e torni in atmosfera. Questi tempi dipendono dal tipo di ecosistema, dall’uso del suolo e dal clima stesso. Ci sono poi alcuni processi che non sono ancora molto chiari che limitano la possibilità di fare previsioni precise. Per questo è così importante lo studio di queste dinamiche.
Da dove proviene il radiocarbonio che usa per le misurazioni?
Ci sono fondamentalmente due fonti di radiocarbonio: in natura, si forma dall’interazione dei raggi cosmici con l’atmosfera e vi rimane a lungo visto che il suo tempo di decadimento è di 5700 anni. Di radiocarbonio naturale ce n’è ovunque e ci consente di studiare i fenomeni su una scala temporale di migliaia di anni. Poi c’è il radiocarbonio che è stato generato dall’uomo con i test nucleari effettuati in atmosfera fino alla moratoria del 1964. In pochi anni questi test hanno raddoppiato la quantità di radiocarbonio disponibile: da allora abbiamo un segnale molto forte e possiamo seguirlo. Questo ci permette di studiare i fenomeni in una scala temporale diversa, di anni e decenni. Gli effetti degli esperimenti fatti con le armi atomiche ci permettono oggi di studiare più in fretta il ciclo di carbonio.
Gli esperimenti atomici hanno avuto almeno un risvolto utile…
Infatti, l’unica cosa utile è stata questa.
Con il costante aumento delle concentrazioni della CO2 in atmosfera i sistemi terrestri continueranno ad assorbire carbonio con le stesse proporzioni?
Questa è una delle domande a cui vogliamo rispondere monitorando il ciclo del carbonio. Un’altra domanda è: possiamo gestire il suolo in modo che possa assorbire più CO2? Proprio per rispondere a queste questioni dobbiamo sapere quanto a lungo il carbonio rimane nel suolo.
In questi mesi in Europa si discute di «carbon farming», cioè di remunerare gli agricoltori perché possano aumentare le quantità di carbonio assorbite dal suolo e dalla vegetazione. Condivide la ratio di questo provvedimento?
Incrementare le quantità di carbonio del suolo, cioè la sostanza organica, fa bene in generale, migliora la salute e la fertilità del suolo, quindi di per sé è un ottimo provvedimento. Però, dal punto di vista della mitigazione del clima, sappiamo che le quantità di carbonio che il suolo può assorbire sono molto piccole, quindi può avere senso farlo su larghissima scala. Aiuta, ma non è risolutivo perché non può compensare le emissioni gas-alteranti, se non in minima parte. Lo stesso si può dire per le foreste: piantare molti alberi, possibilmente con i metodi agro-ecologici, va bene per diversi motivi, ma non sarà la vegetazione a salvarci. Anche coltivando tutta l’Europa in modo da assorbire più carbonio, se il clima continua a diventare sempre più caldo, noi perderemmo tanto carbonio quanto ne abbiamo assorbito, a causa dello scongelamento del permafrost che potrebbe verificarsi nelle regioni settentrionali del globo, per fare un esempio.
Cosa ci salverà?
Cambiare i sistemi energetici basati sui combustibili fossili.
Cosa pensa dei sistemi CCS (Carbon Capture and Storage, cattura e stoccaggio di carbonio)?
Sono molto costosi, ma potremmo doverli usare.
È così difficile catturare la CO2?
Molte persone ci stanno lavorando, le tecnologie ci sono, ma catturare le quantità che sono necessarie temo costi più di quanto siamo disposti a spendere. Se vogliamo sottrarre CO2 dall’atmosfera per arrivare ad avere emissioni negative, dovremo usare una combinazione di tutte le opzioni che abbiamo a disposizione, soprattutto cambiare il modo di produrre energia. Il sistema dei crediti del carbonio (che compensa in un luogo emissioni prodotte altrove, ndr), è solo una piccola parte della storia, rispetto a quello che sarebbe necessario fare per tagliare le emissioni.
Durante la COP 26 di Glasgow l’anno scorso si è raggiunto un accordo contro la deforestazione, ma non si è parlato del mare. Possiamo permetterci di ignorare il mare nella sfida ai cambiamenti climatici?
No, perché il mare si sta acidificando per l’eccesso di CO2 che si dissolve nelle acque. Sono stati proposti interventi geo-ingegneristici, ma nessuno di questi è una soluzione per la vita marina. Il tasso di cambiamento non è mai stato così veloce. L’incremento della CO2 che si è verificato nel corso della mia vita è lo stesso che si è verificato nell’arco di almeno un migliaio di anni.
Con questi ritmi ci può essere tempo per l’adattamento?
Questo tema è assolutamente cruciale per la zone tropicali. Se aumenta la temperatura ai Tropici, la grande incognita è cosa succederà alla vegetazione. Se aumenta la temperatura nelle zone Artiche sappiamo che tipo di ecosistema potrebbe svilupparsi, ma la foresta tropicale che esiste oggi si sviluppa ad una temperatura di 28/29° C, non esiste foresta tropicale dove fa più caldo. Con l’aumento della temperatura potrebbe forse verificarsi qualche forma di adattamento, magari per alcune specie, ed è quanto stiamo cercando di capire con un progetto di ricerca finanziato grazie ai fondi del premio Balzan che mira a stabilire qual è il tipping point (punto di non ritorno), oltre il quale la foresta non riesce a sopravvivere come tale e quindi smette di assorbire più carbonio.
C’è il rischio che l’Amazzonia rilasci più carbonio in atmosfera di quanto ne assorba?
Lo stiamo verificando, ma deve essere chiaro il fatto che, dal punto di vista del ciclo del carbonio, è più efficiente preservare le foreste intatte che abbiamo che lavorare per ripristinarle. Può sembrare ovvio, ma se esaminiamo come funziona il sistema dei crediti di carbonio, ecco che non è così ovvio. È meglio pagare qualcuno per non tagliare le foreste, che pagare qualcuno per ripristinarle e piantarne di nuove. Il sistema dei crediti del carbonio si basa sulla politica, non sulla scienza.
All’inizio della sua carriera lei ha fatto parte del gruppo di scienziati che, con il radiocarbonio, ha datato la Sindone di Torino al periodo medievale. Quali furono le reazioni a questa vostra scoperta?
La comunità scientifica non ha obiettato. È stato interessante, ma non è certo la misurazione più importante che ho fatto.
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