“Quando vedo la Kyenge penso ad un orango”, raccontò il leghista Roberto Calderoli ad una platea esilarata. Val la pena proporre la questione inversa: quanto c’è del macaco in Calderoli? La domanda è seria, e, come vedremo, non priva di conseguenze. Non riguarda soltanto Calderoli o chi si sganasciò alla sua battuta, ma in generale quelle decine di milioni di italiani che sono ostili alle minoranze nelle percentuali più alte dell’Europa occidentale.

Siamo soliti attribuire queste animosità a cause economiche e sociali. Ma nell’ultimo numero di Foreign Affairs, dedicato al nazionalismo, il primatologo Robert Sapolsky richiama una origine più profonda, ancestrale: nei grandi primati le sinergie tra un ormone, l’ossicitina, e strutture del cervello come l’amigdala, operano una distinzione immediata tra individui appartenenti al proprio gruppo e individui appartenenti a gruppi estranei; e inducono una reazione automatica, per la quale accordiamo ai primi fiducia, empatia, e opponiamo ai secondi diffidenza, ostilità.

Quello stesso meccanismo ‘naturale’ che genera avversione per lo straniero rafforza istinti sociali necessari alla comunità come l’altruismo. Sapolsky cita a conferma il comportamento dei macachi: scimmie assai socievoli all’interno del proprio branco, invece associano immagini di pericolosi ragni ai macachi ‘stranieri’.

Dunque Calderoli associa Kyenge all’immagine di un orango in quanto in lui c’è molto del macaco. E pullulano di macachi sapiens quelle curve che mugolano ‘buuu’ corali quando prende palla un giocatore nero della squadra avversa, soprattutto se si tratta di un attaccante facile al gol.

Anche se Sapolsky non si avventura su questo terreno, è evidente che La Biologia del Noi e del Loro, il sottotitolo del suo saggio, fonda lo schema «culturale» per il quale, per esempio, non ci commuovono le sofferenze inflitte da nostri simili a gruppi umani che ci appaiono diversi da noi. In Italia nessun politico, giornale, scuola, istituzione, canale televisivo in questi decenni ha mai ricordato il più grande genocidio dell’Ottocento, la «pulizia etnica» compiuta dall’esercito russo tra il 1864 e il 1867 contro gli abitanti della Circassia, una vasta regione affacciata sul Mar Nero la cui popolazione fu ridotta di oltre il 90%. Né il Parlamento mai si è sognato di infastidire Putin con una mozione analoga a quella bipartisan approvata questa settimana dalla Camera, perché il governo riconosca come genocidio il massacro degli armeni, il cui numero tra il 1915 e il 1916 fu dimezzato da nazionalisti turchi e tribù curde.

I due genocidi si somigliano (soprattutto nella genesi: una somma di paranoie militari e ossessioni etniche). Ma nel primo caso le vittime erano musulmane, gli assassini cristiani; nel secondo, vittime cristiane, assassini musulmani.

La regressione nelle strutture più antiche del Noi/Loro si fa inquietante nel confronto con la scimmia a noi più simile, lo scimpanzé. Secondo uno studio apparso su Nature le probabilità che uno scimpanzé uccida uno scimpanzé di un altro gruppo sono trenta volte superiore alle probabilità che uccida un individuo della sua stessa comunità.

Lo scimpanzé «straniero» viene ammazzato da gang di solito composte da otto individui, equivalenti alle ronde di sapiens che in Italia malmenano migranti scelti a caso. Beninteso, nella differenza tra umani e scimpanzé (l’1,6% del patrimonio genetico) c’è anche la nostra inarrivabile capacità di correggere l’istinto con i processi cognitivi. Ma secondo Sapolsky la razionalità non può molto quando è contrastata dalle forze primordiali che strutturano la nostra socialità secondo un ferino Noi/Loro: “Neurobiologia, endocrinologia e psicologia dello sviluppo dipingono un quadro truce della nostra vita come esseri sociali. Quando si arriva ai comportamenti di gruppo, gli umani non sembrano troppo lontani dalle famiglie di scimpanzé che si uccidono nelle foreste dell’Uganda”.

Nella storia del pensiero queste descrizioni angosciose della natura umana di solito conducono alla proposta di rinunciare alla libertà e di consegnarsi in massa alla polizia del Leviatano perché ci protegga. Invece Sapolsky propone un soluzione opposta: un «nazionalismo progressista», cioè un Noi nuovissimo che ricavi fierezza e slancio dal perseguire primati civili quali alta mobilità sociale, trasparenza, libertà, solidarietà con i deboli.

A queste caratteristiche, mi pare, potrebbe corrispondere un europeismo rifondato, finalmente in grado di produrre emozioni e avversioni forti, non più fondato unicamente su fredde convenienze. Ma per produrre questo Noi «caldo» non basta esporre ogni tanto la bandiera dell’Unione, come propose Prodi: occorre un

Loro esattamente definito, cioè innanzitutto depurato da tutte le idee macache che fiaccano il campo europeista. Nel caos ideologico italiano pare possibile dirsi liberali e ossequiare Netanyhau, avversare Salvini ma difendere la politica di Minniti, compiangere gli armeni ma non i circassi, condannare l’antisemitismo ma anche la «lobby ebraica» o «filo-ebraica», avversare i nazionalismi arabi giudeofobi e stimare i mestieranti del disprezzo per I musulmani come Finkielkraut. Fin quando l’europeismo non avrà risolto queste contraddizioni, la prevalenza del macaco avrà gioco facile contro quel Noi che Vittorio Arrigoni sintetizzò in una formula mai come oggi attuale: Restiamo umani.