Editoriale

La sporca guerra di Obama all’informazione

La sporca guerra di Obama all’informazione – Reuters

CACCIA AI «WHISTLEBLOWER» I «nemici» con cui ha collaborato Manning si chiamano New York Times, País, etc. Gli atti «illegali» delle talpe servono solo a ripristinare la legalità contro uno Stato che la vìola

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 23 agosto 2013
Luca CeladaLOS ANGELES

Con la sentenza di mercoledì contro il capro espiatorio Bradley-Chelsea Manning l’esercito e l’apparato di sicurezza americani hanno punito il proprio smacco più clamoroso dai tempi dello scandalo di Abu Ghraib, l’umiliazione forse più cocente della loro storia. O almeno così pareva prima che questo caso fosse uguagliato (e forse superato) da Snowden e dalle sue rivelazioni altrettanto non autorizzate sulla Nsa che hanno scoperchiato non già singole malefatte ufficiali bensì un vasto apparato di sorveglianza metodica della cittadinanza mondiale.
La condanna di Manning è la conclusione annunciata di un processo che è stato il banco di prova per un governo che ha fatto della chiusura delle «falle» informative una propria priorità politica, spingendo aggressivamente verso una tolleranza zero per i canali non ufficiali di informazione. Un inasprimento delle politiche perfino rispetto a quelle dell’arcigno regime Bush-Cheney, che ha messo nel mirino tanto le fonti non autorizzate quanto i giornalisti che se ne servono.
La figura del «whistleblower», l’individuo che per senso di giustizia e onestà denuncia l’attività illecita di una organizzazione di cui fa parte, è una figura anomala alternamente denigrata e riverita. Da Upton Sinclair che costruì una carriera politica (socialista) a partire dalla sua celebre inchiesta sui mattatoi di Chicago a Jeffrey Wigand (immortalato da Russel Crowe in Insider di Michael Mann) che denunciò i piani dettagliati di «Big Tobacco» per offuscare i danni provocati dalle sigarette, le «spiate» benefiche costituiscono parte integrante del processo legislativo e normativo in America. Le indiscrezioni di questi obbiettori di coscienza civili hanno lanciato decine di commissioni parlamentari e determinato importanti riforme. Chi «soffia il fischietto» infatti pratica una extralegalità virtuosa, che per definizione contravviene al regolamento per il bene pubblico e in quanto tale è di fondamentale importanza per il sistema di «controlli e contrappesi» contemplato dalla costituzione. L’affare Watergate, insegnato oggi nelle scuole come fulgido esempio di giornalismo e come ultimo ricorso contro l’abuso di potere, si basa sul «tradimento» di Gola Profonda (l’allora direttore associato dell’Fbi, Mark Felt), fonte non autorizzata per eccellenza, e la sua protezione dalle grinfie degli inquisitori da parte del Washington Post.
Un altro episodio politico chiave dell’era del Vietnam nasce dal «leak» di un carteggio militare top secret. I Pentagon Papers, un rapporto riservato sull’andamento disastroso della guerra vietnamita, vennero trafugati da Daniel Ellsberg, un analista della Rand Corporation e consegnati al Washington Post e al New York Times. Allora l’amministrazione Nixon non riuscì come voleva a perseguirlo per alto tradimento a causa dell’ampio consenso che riconosceva il diritto instrinseco dei cittadini di conoscere l’operato che il loro governo voleva occultare, un’opinione sostenuta all’epoca da una sentenza della corte suprema degli Stati Uniti. Ma se fosse per la foga dell’attuale amministrazione che ha processato più «whistleblower» di tutte le precedenti messe assieme, Ellsberg, considerato il decano della controinformazione democratica, oggi ancora marcirebbe in un carcere militare. «Gola Profonda», insegnato nelle scuole come elemento necessario del «sistema che funziona» secondo l’assioma anglosassone della stampa «avversaria del potere politico», sarebbe oggi semplicemente un nemico, un imputato, come Manning, di alto tradimento. Nel caso di quest’ultimo, quel capo d’accusa è stato infine accantonato per mancanza di prove, ma il paradosso fondamentale rimane la sua persecuzione per «intelligenza con il nemico» ove per nemico si intende non l’arcigno terrorista puntualmente sventolato dall’accusa, ma soggetti come il Guardian, il New York Times, il Washington Post e gli altri autorevoli quotidiani che hanno pubblicato i documenti Wikileaks sulle proprie prime pagine e dunque, per estensione, i loro lettori.

[do action=”citazione”]Mai un governo americano era andato così vicino a dichiarare guerra ai propri cittadini[/do]

Mai un governo americano era andato così vicino a dichiarare guerra ai propri cittadini, e Manning paga caro essere stato un agente al servizio dell’informazione di un pubblico cui il proprio governo preferisce tenere segrete le nefandezze perpetrate in suo nome. La condanna di Manning potrà anche considerarsi una vittoria strategica come la definisce Assange ricordando che poteva andare molto peggio, ma rimane vergognosa nella sostanza. Manning – e Snowden dopo di lui – hanno innescato un dibattito essenziale che i vari regimi del mondo avrebbero voluto sequestrare (le scuse di Obama – «stavo per farlo io, mi hanno anticipato» – suonano semplicemente patetiche). Quando diventano l’ultimo ricorso dei cittadini contro gli abusi e i soprusi dei governanti i leak, come le intercettazioni, sono il sintomo di una democrazia gravenente malata. La condanna di Manning è l’ultimo atto punitivo e intimidatorio di un governo che ha alzato a livelli senza precedenti la guerra a chi non si adegua all’omertà ufficiale ormai diventata il «new normal». L’odierna tolleranza zero verso gli obiettori di coscienza dà la misura della deriva autoritaria negli Stati uniti dopo un decennio di guerra totale al terrorismo. Una guerra che non ha sconfitto nessuno, salvo ferire gravemente la nostra libertà e democrazia.

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