Nel discorso con cui Jeremy Corbyn ha concluso la tre giorni congressuale del partito a Liverpool c’erano gli elementi principali che hanno contraddistinto il ritorno del Labour a se stesso nei tre anni da che ne ha preso rocambolescamente le redini: la lotta alla disuguaglianza, alla catastrofe ambientale, alla disoccupazione, alla colpevole passività del Paese nei confronti del problema palestinese (di cui è tutto sommato corresponsabile) e – elemento, questo, del tutto nuovo – al suo tradizionale ruolo ancillare nei disastri statunitensi in politica estera.

MA C’ERA SOPRATTUTTO la riluttanza a fare dello psicodramma Brexit la propria tomba politica: quello che auspicabilmente accadrà ai conservatori, che nel loro scomposto accapigliarsi confermano che non vi è davvero guerra più sanguinosa di quella civile. Nonostante le stridule proteste dei centristi del partito, che assieme agli esangui Lib-dem cercano di limitare la propria erosione immolandosi teatralmente sulle barricate di un fantomatico secondo referendum, questo non è stato nominato nemmeno una volta. Al suo posto, quello di cui invece il Paese ha davvero bisogno: stimoli a un’occupazione che non sia sfruttamento, superamento dell’ingordigia finanziaria, azioni serie per contrastare l’eco-massacro del quale siamo già vittime e con il quale stiamo suicidando a sangue freddo la posterità.

RIGUARDO AL REFERENDUM, il Partito voterà contro il piano Chequers di Theresa May, che scontenta tutti, e si opporrà all’uscita “dura” (dal mercato comune e dall’unione doganale) dall’Ue: «Sarebbe un disastro nazionale. Per questo se il Parlamento respingerà l’accordo dei conservatori o se il governo non riuscisse a raggiungere alcun accordo spingeremo per le elezioni anticipate. E se non sarà così, saremo aperti a tutte le possibilità».

Corbyn ha poi aggiunto l’inaspettata – evidentemente tattica – apertura alla premier: «Se ottiene un accordo che comprende l’unione doganale e nessun confine fisico con l’Irlanda, se si proteggono i posti di lavoro e i diritti … ebbene allora sosterremo quell’accordo». Per poi sferrare la stilettata che ha mandato in visibilio i delegati: «Ma se non è in grado di negoziare quell’accordo allora deve farsi da parte e lasciare che lo faccia un partito che lo è e lo sarà».

NEL SEGNO di un keynesismo di ritorno è la promessa di una fine dell’austerity, da articolarsi in 400mila nuovi posti di lavoro nelle energie rinnovabili, un poderoso programma di edilizia abitativa e soprattutto – tenetevi forte – azionariato operaio: obbligare tutte le aziende con più di 250 operai a versare un dieci per cento del proprio patrimonio netto in un fondo per i lavoratori. Insomma, fine al vandalismo sociale che dal 2010 i conservatori, soli o in coalizione, infliggono al Paese.

IN POLITICA ESTERA, il leader ha confermato la piena dissociazione dai deliri trumpiani sul clima, dalle ambasciate americane a Gerusalemme, dall’accordo di pace con l’Iran, dai crimini israeliani a Gaza – «un oltraggio» – e dalla legge Stato-Nazione ebraica. Ribadito invece l’appoggio a una soluzione dei due Stati, niente più guerre umanitarie e riconoscimento immediato dello Stato palestinese, oltre alla condanna risoluta di ogni razzismo e antisemitismo all’interno del partito, agitato convulsamente da polemiche in questo senso.

È STATO UN DISCORSO non reboante, ma chi lo pronunciava non aveva più nulla della legnosità e dell’incertezza degli esordi. Corbyn ha ora dalla sua, oltre alla naturale amabilità, un notevole controllo della tecnica oratoriale. Forma e contenuto sono finalmente complementari e messi al servizio di un programma di governo che, quando si guardi a quello che succede altrove in Europa, per tacere del nostro Paese, sembra un miraggio. Ma soprattutto è stato il discorso di un ex-parvenu della politica che si sente prossimo al potere, capace di scuotere un Labour politicamente anchilosato dal suo inane centrismo facendogli finalmente aprire gli occhi sull’avidità e il cinismo acquisitivo ai quali l’era blairiana lo aveva sospinto ibridando ideologie contrapposte in una fittizia operazione di maquillage andata drammaticamente sbriciolandosi a partire dal 2008.