Editoriale

E ora chi combatterà per i voti dei lavoratori?

E ora chi combatterà per i voti dei lavoratori?

Strateghi clintoniani in allarme Senza Bernie Sanders sarà dura sfondare tra i bianchi poveri della "rust belt". Certo non sarà il miliardario Bloomberg a convincerli

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 29 luglio 2016

Il problema, per gli strateghi clintoniani, è adesso come sfilare a Trump almeno una quota della classe lavoratrice bianca della rust belt e come contendergli una bella fetta di indipendenti. Compito non facile, non tanto per i caratteri di una candidatura, quella di Hillary, che fa fatica ad affermarsi e a farsi strada, tratti legati alla sua personalità, alla sua storia, alle sue scelte, alle sue responsabilità, non importa se vere o presunte, e probabilmente anche a forme aperte o coperte di misoginia.

C’è dell’altro, forse più importante. C’è un problema di fondo per il Partito democratico, che rende difficile la sfida con un personaggio come Trump. Può essere sintetizzato nella partecipazione alla convention di Filadelfia di un altro magnate newyorkese, Michael Bloomberg, dieci volte più ricco di Trump. Una presenza tutt’altro che casuale al Wells Fargo di Filadelfia.

Secondo Lee Drutman, citato dal commentatore conservatore Reihan Salam su Slate, i democratici hanno sostituito i repubblicani come il partito degli americani più benestanti. Sostiene il ricercatore del think tank New America, già nel 2012, Barack Obama ottenne una quota di elettori nella fascia di reddito superiore ai 220.000 dollari maggiore di quella ottenuta da Mitt Romney, ed è stata la prima volta dal 1964 che il 4% all’apice della scala dei redditi sosteneva un democratico più che un repubblicano.

Ridurre, solo per questo, i democratici al partito della Bloombourgeoisie, come sostiene Reihan Salam, è un po’ troppo, ma è un’immagine che dà conto di una forza politica comunque percepita così, a torto o a ragione, dall’elettorato che ce l’ha con New York e con i liberal, considerati attenti sempre più ai loro diritti che all’edificazione di una società almeno un po’ meno ingiusta, com’era nel dna originario del partito di Roosevelt.
È paradossale che un miliardario come Trump possa risultare il paladino degli interessi della classe media impoverita? Lo è, ma è così.

E questa è la ragione per la quale la candidatura di Bernie Sanders avrebbe avuto un senso logico nel contesto di oggi, contrastando efficacemente la pretesa di Trump di rappresentare operai e famiglie nelle aree di crisi del paese, e al tempo stesso trascinando giovani ed elettori da tempo assenti alle urne. I sondaggi lo davano in largo vantaggio su The Donald, più di Hillary.

Non è andata così. E infatti ora tocca soprattutto a Sanders avere il compito titanico di combattere per i voti dei lavoratori nelle zone ad alto rischio di sconfitta.

Il suo ruolo sarà ancora più cruciale di quello che potrà avere Barack Obama. Ovvio che il presidente uscente sia stata la star della convention. Ovvio che darà una mano a Hillary nella campagna, insieme con Bill, Joe Biden, il vice del ticket Tim Kaine, gli esponenti di spicco del partito e le celebrities dello spettacolo.

Ma c’è anche il rischio che un legame troppo evidente con Obama offra agli avversari – e Trump l’ha già usato – l’argomento che un’eventuale elezione di Hillary costituirebbe un terzo mandato obamiano. Quest’accusa, unita a quella di farsi eleggere non come individuo, ma come coppia insieme a Bill, è una smaccata forma di misoginia di infimo grado, ma, come si è capito nei mesi delle primarie, è una linea d’attacco che funziona, non solo nell’elettorato conservatore, ma anche in settori elettorali del lato opposto.

Al netto delle critiche e dei veleni, Hillary, col suo discorso d’investitura, è attesa al varco di un esame molto difficile, al termine del quale dovrà essere evidente e netto il profilo specifico della sua candidatura, non ultimo sul terreno della politica internazionale. È la parte del suo discorso d’investitura più atteso, il più difficile. La sua fama di “falco” non solo continua a generare diffidenza tra elettori e attivisti progressisti. Per alcuni continua a essere l’ostacolo principale al proprio voto.

Il fatto è che ha di fronte un avversario isolazionista e non interventista. Da quali calcoli sia dettato questo posizionamento, e quanto davvero sarà rispettato se sarà eletto, sembra secondario per un buon numero di elettori, di entrambi gli schieramenti. In certe aree elettorali democratiche potrebbe essere un buon motivo per stare a casa l’8 novembre, se Hillary non darà le risposte che questi elettori si attendono.

 

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