Tra i tanti giovani talenti che animano il jazz contemporaneo vi potrà capitare di incappare nella vibrafonista Nikara Warren. Nata a Brooklyn e nipote del grande pianista Kenny Barron, la musicista afroamericana sta calcando i palchi dei jazz club di New York con la sua nuova creatura: Black Wall Street. Si tratta di una formazione di fusion di medie dimensioni che per ora non ha ancora pubblicato un disco ma che crediamo non tarderà a farlo.
SOTTO I COLPI 
Il progetto nasce dalla indignazione per aver visto i giovani afroamericani cadere sotto i colpi della polizia. A molti Black Wall Street non dirà molto eppure è una storia tragica e dolorosamente importante. Così veniva chiamato il quartiere nero di Greenwood a Tulsa, Oklahoma. Vigendo la segregazione il quartiere si era dotato di proprie attività commerciali, scuole, chiese, ospedali, teatri. Grazie al boom petrolifero aveva raggiunto un discreto benessere tanto da meritarsi quell’appellativo. Il 31 maggio del 1921 un giovane lustrascarpe nero viene arrestato con l’accusa di avere aggredito una ragazza bianca in un ascensore. La notizia, rilanciata con enfasi scandalistica dalla stampa locale, fa affluire in breve una folla inferocita di bianchi intorno alla prigione locale. Il copione è quello già visto altre, troppe, volte: l’esito è già scritto e si chiama linciaggio. Però molti afroamericani hanno vestito la divisa dell’esercito durante la Prima Guerra Mondiale e una volta ritornati a casa non sono disposti ad accettare inermi la violenza. Un gruppo di neri armati si offre di affiancare la polizia per difendere il prigioniero. Le due fazioni si fronteggiano e la situazione degenera in una sparatoria. A questo punto si scatena la follia razzista. Migliaia di bianchi armati attaccano Greenwood mentre le forze dell’ordine si schierano solo a protezione degli edifici pubblici e lasciano fare.
In breve la resistenza armata dei neri è travolta: si spara a vista e si deportano gli abitanti neri in appositi centri di detenzione improvvisati, si appiccano le fiamme a negozi e abitazioni mentre la popolazione fugge terrorizzata. Alla fine si contano 300 morti e mille feriti, più di milleduecento edifici bruciati e diecimila senzatetto. Il più grave massacro della storia degli Stati Uniti verrà completamente rimosso fino agli Anni Novanta. Nel 2011 il quartetto bianco Fred Jacob Jazz Odyssey, con Jacob alla steel guitar, Brian Haas al piano, Josh Raymer alla batteria e Jeff Harshbarger al contrabbasso, affiancato per l’occasione dai fiati di Jeff Coffin, Steven Bernstein, Peter Apfelbaum, Mark Southerland e Matt Leland ha inciso la Race Riot Suite (Kinnara Records) ispirata ai fatti di Tulsa. Si tratta di un affresco in dodici movimenti dai colori accesi che ripercorre i tragici fatti rifacendosi alla lezione «narrativa» di Duke Ellington e alla satira di Charles Mingus.
Tra rievocazioni old style e umorismo feroce, marcette e rock blues, andamento cinematico, assoli free e intricate parti scritte la suite restituisce insieme il senso di tragedia e l’indignazione.
Come per i fatti di Tulsa anche l’esistenza del Green Book è stato universalmente conosciuto solo di recente grazie all’omonimo film di Peter Farrelly, vincitore del premio Oscar 2019. Il manuale ad uso dei viaggiatori neri nel sud per evitare guai che potevano anche essere fatali è ricordato dal brano The Green Book Blues, contenuto nell’ultima produzione discografica del trio Harriet Tubman The Terror End of Beauty (Sunnyside rec, 2018). Una batteria fredda e martellante e gli effetti dub ci immergono in una dimensione allucinata ampliata dai suoni eterei di una chitarra che sembra sul punto di spiccare un volo lirico ma si ferma sempre un istante prima; poi il brano diventa un incubo sonico dove i suoni distorti di basso e chitarra creano un blues scarnificato e raggelante.
RETE DI CONTATTI
I tre musicisti di questo fenomenale gruppo che suona una musica memore sia dell’avanguardia di Ornette Coleman, della conduction di Butch Morris come dell’hard rock o dei Funkadelic sono il chitarrista Brandon Ross, il bassista Melvin Gibbs e il batterista J. T. Lewis.
Attivi dal 1998, hanno voluto chiamarsi con il nome di una delle maggiori eroine della storia afroamericana. Harriet Tubman (1822-1913) è stata una tenace combattente per l’emancipazione e dopo la fuga dalla schiavitù ha organizzato la Underground Railroad, la ferrovia sotterranea che altro non era se non una rete di contatti per facilitare la fuga degli schiavi. Fu amica di John Brown e spia per l’esercito unionista durante la guerra civile terminata la quale non smise di lottare per il suffragio femminile che non riuscì però a vedere realizzato.
Anche nel loro precedente disco Araminta (Sunnyside Records, 2017) le dediche confermano una precisa intenzione politica: Nina Simone, President Obama’s Speech at The Selma Bridge, Sweet Araminta (Araminta è il nome africano di Harriet Tubman). Per quell’incisione il trio aveva ospitato il trombettista Wadada Leo Smith.
Proprio Smith ha appena pubblicato con l’etichetta finlandese Tum il sontuoso e magnifico Rosa Parks: Pure Love. Smith è originario del Mississippi dove è nato nel 1941 e si è messo in luce alla fine degli anni Sessanta per una lucida e tenace ricerca nella riformulazione del linguaggio musicale a partire dall’esperienza afroamericana. Il metodo da lui teorizzato e denominato «Ankhrasmation» punta a fornire un nuovo strumento per l’improvvisazione collettiva ed è «un linguaggio che richiede ai musicisti di seguire istruzioni specifiche basate sull’approccio visuale alla partitura».
Nell’intervista realizzata da Enzo Boddi per il mensile Musica Jazz, Smith definisce il disco «una dichiarazione politica e spirituale sulla storia degli afroamericani in questo paese, nonché una profezia e una visione di quello che sarà il futuro per questo segmento della società».
Il lavoro porta significativamente il sottotitolo di An Oratorio of Seven Songs perché è strutturato intorno a sette brani su testi scritti dal leader ( in un caso utilizzando parole della stessa Rosa Parks) e cantati dalle vocalist Min Xiao-Fen, Carmina Escobar e Karen Parks. Accanto e intorno a questi ci sono altri otto momenti strumentali ad opera di un quartetto d’archi e uno di trombe (Smith, Ted Daniel, Graham Haynes, Hugh Ragin), il percussionista Pherooan akLaff e Hardedge ( Velidor Pedevsky) all’elettronica. In fase di editing sono stati utilizzati estratti da precedenti incisioni di Anthony Braxton, Steve McCall e Leroy Jenkins come omaggio a suoi sodali nell’avventura della A.A.C.M., il collettivo di musicisti con base a Chicago che tra la fine degli anni Sessanta e la metà dei Settanta ha contribuito in modo decisivo alla ridefinizione delle modalità dell’improvvisazione e della composizione nonché a una nuova visione del jazz in una prospettiva storica inclusiva e totale.
Rosa Parks ( 1913-2005) è diventata il simbolo della la lotta per i diritti civili quando, il primo dicembre 1955, si rifiutò di sottostare all’odioso divieto di sedersi nei posti riservati ai bianchi su un autobus di Montgomery in Alabama. Il suo gesto, e il conseguente arresto, diede il via al boicottaggio più celebre della storia Usa. Dopo 381 giorni di lotta la segregazione cessò. Il primo pezzo ricorda proprio quella lotta: The Montgmomery Bus Boycott-381 Days of Fire.
Non si tratta di un disco facile ma basta avere la concentrazione necessaria per penetrare quest’opera e coglierne la perfetta coerenza formale a partire dalla forma speculare che fa iniziare e concludere l’oratorio con gli squilli di trombe trionfanti di Prelude: Journey e Postlude. Victory!.
Tutto il lavoro è incentrato sulla celebrazione della parola che qui viene ad assumere il carattere di Verbo con tutto il suo portato spirituale. Ne è prova la citazione di frasi di Martin Luther King Jr. , figura che si staglia dietro quella di Parks con tutta la sua potenza simbolica, etica e politica.
INELUTTABILITÀ
Bellissima è la strumentale Rosa Parks: Mercy, Music for Double Quartet con il suo carattere epico di ineluttabilità così come la Song 1: The Montgomery Bus Boycott-381 Days of Fire dal profilo di spiritual con un incedere melodico di grande potenza impreziosito dall’apporto della pipa, un cordofono della tradizione cinese, e della voce di Min Xiao-Fen.
Il musicista afroamericano non è nuovo ad ambiziosi lavori tematici come il quadruplo cd Ten Freedom Summers (Cuneiform, 2012). In quel (capo)lavoro le musiche erano eseguite dal suo Golden Quintet con Anthony Davis ( anche lui autore di opere dedicate a Malcolm X o al middle passage, la tratta degli schiavi), John Lindberg, Pherooan akLaff e Susie Ibarra e dal nonetto «classico» Southwest Chamber Music condotto da Jeff von der Schmitt. Le «dieci estati della libertà» sono quelle della stagione del movimento dei diritti civili dal 1954 al 1964 ma i brani, diciannove tra i cinque e i venticinque minuti, si riferiscono a un arco temporale ben più vasto che parte dal 1857 e arriva al tragico 11 Settembre 2001. Tra le figure omaggiate troviamo leader come Martin Luther King, Medgar Evers e, già allora, Rosa Parks.
Non si pensi però che Rosa Parks: Pure Love sia solo un doveroso omaggio a una figura e a un periodo glorioso ma distante. Smith incastona nell’oratorio la perentoria denuncia dell’attualità con il brano Change It!: «Non abbiamo una democrazia/Quando ventotto stati hanno cinquantasei senatori/e la California solo due/il voto del popolo è la legge e la via per la libertà/Noi non possiamo aspettare/Se siamo una democrazia/Noi dobbiamo risolvere questo problema/cambiamo!».
Il riferimento è alla vecchia e superata ripartizione dei seggi elettorali che, non tenendo conto della popolazione di ogni stato, anche nell’ultima elezione ha premiato il candidato della destra razzista. Smith coglie il nesso tra le lotte del passato e la necessità di riprendere quel cammino. In questo è in perfetta sintonia con la ripresa del dibattito e dell’attivismo di cittadini, artisti e intellettuali. Un dibattito che sempre più tende a collegare le questioni etniche con quelle di classe e di genere come tematiche tra di loro inestricabilmente collegate. Esemplare di questo tipo di approccio che allarga il campo è il fermento della scena roots. Da qualche tempo si assiste a una nuova generazione di musicisti interessati a quella che il fumettista Robert Crumb ha definito «la buona musica di una volta».
La cantante e musicista Rhiannon Giddens racconta di essere rimasta profondamente turbata durante la visione del film Birth of a Nation (2016) del regista Nate Parker in una scena nella quale lo stupro della moglie dello schiavo Nat Turner scatena in lui la decisione di capeggiare la prima rivolta di massa di schiavi nordamericani. Nella scena, riferisce Giddens, la cinepresa si concentra solo sull’uomo ignorando la donna.
«Ero furiosa. Molte storie sono raccontate da un solo punto di vista». Da questo la spinta a pensare e realizzare Songs of Our Native Dughters ( Smithsonians Folkways Recordings, 2019). «Io vedo questo album precisa – come parte di un vasto movimento che reclama il riconoscimento del ruolo della donna afroamericana nella storia». Con lei altre quattro protagoniste della rinascita dell’old time music in una prospettiva afroamericana: Leyla McCalla, Allison Russell, Amythyst Kiha.
Il responsoriale Mama’s Cryin’ Long racconta di uno stupro visto dalla figlia ed è eseguito solo con voci e battito delle mani. In altri brani spuntano il banjo, suonato da tutte e vero protagonista del lavoro, chitarre, violino, violoncello, fisarmonica, percussioni. Un viaggio attraverso storie di difesa della propria dignità spesso negata e lotte per l’uguaglianza spesso rimosse. I testi sono stati scritti a partire da ricerche sulle testimonianze di schiave e sulle memorie orali tramandate nelle famiglie delle musiciste.
Leyla McCalla ha condiviso con Giddens oltre a questo progetto anche la partecipazione al gruppo Carolina Chocolate Drops, formazione di punta del movimento che punta a riscoprire e rinnovare il genere roots. Anche lei amplia lo sguardo a partire dal razzismo per abbracciare tematiche sociali e politiche. Nell’ultimo lavoro solista The Capitalist Blues ( Pias, 2018) la cantautrice di origine haitiana riflette sulla condizione della persona nel capitalismo «dove ci viene chiesto di fare sempre di più, essere sempre di più e avere sempre di più».
STILE NEW ORLEANS
Con lei diverse formazioni per un campionario di brani in stile jazz di New Orleans, dove attualmente vive, zydeco, calypso, blues, folk haitiano. La musica è gioiosa ma i testi sono affilati: «Sto nuotando in un oceano di squali» e poi «Non so cosa farò della mia vita/non è giusto, non è buono/non sono nata solo per sopportare tutta questa competizione».
Nel 2015 alcuni giovani musicisti partecipano a «Musicians against Police Brutality», un evento organizzato per protestare contro i sempre più frequenti casi di violenza della polizia nei confronti degli afroamericani. Da quell’incontro nasce Irreversible Entanglements, uno dei più interessanti esempi di free jazz e poetry. Keir Neuringer, sax, Aquiles Navarro, tromba, e Luke Stewart, contrabbasso, Tcheser Holmes, batteria e Camae Ayewa (conosciuta anche come Moor Mother) alla voce nel 2017 pubblicano il disco omonimo per la International Anthem ossia l’etichetta giusta per sapere quello che di più innovativo si muove nell’ambito del jazz di ricerca e delle nuove musiche elettroniche.
MOLTO TAGLIENTE
Il riferimento alla lezione di Gil Scott-Heron e Amiri Baraka è esplicito seppur attualizzato da un salutare bagno nel blues e nell’hip hop. Le liriche sono taglienti e non lasciano spazio ad ambiguità come quando in Enough Camae Ayewa elenca i nomi degli afroamericani inermi uccisi dalla polizia per il solo fatto di essere neri: «Oscar Grant, Trayvon Martin, Eric Garner, John Crawford, Michael Brown, Renisha McBride enough enough enough enough». La musica è coinvolgente e presenta unisoni innodici, ferocia sonora, improvvisazioni collettive e la efficace declamazione di Camae Ayewa, una regina dell’afro punk, senza dubbio una delle voci più rilevanti della odierna scena poetica e elettronica.
Interessante è anche il disco Flesh & Bone (482 Music, 2017) del batterista chicagoano Mike Reed nato come riflessione sui temi del razzismo, del nazionalismo e dell’intolleranza dopo una disavventura occorsa al suo quartetto nel 2009. Durante un tour europeo il gruppo di Reed fu coinvolto in una manifestazione di neo-nazisti degenerata in una guerriglia urbana con lancio di molotov e gas lacrimogeni. I quattro musicisti, due bianchi e due neri, mentre stavano per prendere il treno per la Polonia sono stati accerchiati da un gruppo di skinheads all’urlo: «Questo è il nostro paese, tornatevene al vostro paese!». Salvati grazie all’intervento della polizia i musicisti, una volta rientrati negli Stati Uniti hanno rielaborato criticamente quell’esperienza in una serie di riflessioni sul blog di Reed e poi con un disco in cui figura alla voce e ai testi il poeta Marvin Tate. Dall’esperienza è nato un bel video di animazione ( https://www.youtube.com/watch?v=PJC8mf3t3lg ).
Da questa breve panoramica quello che emerge è la molteplicità dei linguaggi musicali e delle estetiche che gli artisti statunitensi oggi utilizzano per esprimere la loro condanna del razzismo e delle diseguaglianze. Fusion, roots, avanguardia, classico-contemporanea, free jazz, funk, quel che conta è narrare, denunciare e lottare «con ogni mezzo necessario».