All’epoca della sua morte, quasi cinquant’anni fa, Mishima Yukio apparteneva già al canone letterario moderno; non solo in Giappone, dove la sua statura intellettuale anticonformista ed eclettica unita a un’avveduta presenza mediatica lo avevano reso un astro del mondo letterario, ma anche all’estero: prima negli Stati Uniti, a pochi anni dal suo debutto, e successivamente in Francia e in Italia. Arrivato nel nostro paese tramite l’intermediazione della lingua inglese e poi attraverso l’opera di un numero sempre più nutrito di traduttori dal giapponese, per molti anni Mishima è stato considerato uno scrittore «scomodo» per via della sua svolta patriottica, di cui il clamoroso suicidio fu l’inaspettato epilogo. Temi come il culto per il corpo, l’eroismo e il sacrificio di sé, e l’ideale di una fusione fra pensiero e azione che pervadono l’ultima parte della sua opera erano entrati in risonanza con un certo attivismo fascistoide causando, di rimando, una sua caratterizzazione come scrittore «di destra».

Tuttavia, l’opera omnia di Mishima, che conta quarantaquattro volumi tra narrativa, poesia, teatro, saggistica, traduzioni, è necessariamente molto più complessa ed eclettica di quanto questa etichetta lascerebbe supporre: lo evidenzia, fra l’altro, il recente volume Medioevo & Il palazzo del bramito dei cervi (traduzione di Virginia Sica, Atmosphere libri, pp. 226, e 17,00) che raccoglie un racconto e una pièce teatrale, opere scritte a qualche anno una dall’altra, ma molto distanti sia nell’ambientazione sia nelle circostanze della composizione.
Il racconto è un lavoro giovanile, concepito negli anni della guerra, rimaneggiato su consiglio del mentore e amico Kawabata, e infine pubblicato nel 1946, qualche anno prima del successo di Confessioni di una maschera. La pièce venne scritta dieci anni dopo, per celebrare il ventennale della compagnia con cui lo scrittore collaborava da tre anni, il Bungakuza. Fin dall’inizio degli anni Cinquanta Mishima si era cimentato prima con i generi tradizionali del no (in chiave moderna) e del kabuki, per approdare poi ai drammi in stile occidentale. La narrativa e il teatro rappresentavano, a suo dire, i due poli magnetici della propria attività creativa, e lo dimostrano le oltre quaranta pièce da lui lasciate.

Nonostante il grande successo che ebbe all’epoca e l’apprezzamento persistente della critica, Il palazzo del bramito dei cervi non è il testo teatrale più significativo del repertorio di Mishima, ma presenta comunque elementi di interesse. In un Giappone che, nella seconda metà dell’Ottocento, cominciava ad affacciarsi al mondo dopo secoli di chiusura, il palazzo cui si riferisce il titolo era il luogo in cui non soltanto soggiornavano le delegazioni in visita, ma dove il neonato Stato giapponese dava mostra di essersi occidentalizzato nei costumi tanto da poter dialogare da pari a pari con le potenze straniere. La rincorsa all’Occidente sembra però un pretesto più che un vero tema portante; a occupare la scena sono le vicende umane dei personaggi e i sentimenti universali e trasversali di amore, gelosia, sete di potere, vendetta.
Con Medioevo torniamo invece indietro di diversi secoli, nel cuore del periodo Muromachi.

Lo shogun abdicatario Yoshimasa, non rassegnandosi alla perdita del figlio, cerca di richiamarne indietro lo spirito con l’aiuto di sacerdoti e veggenti. Nel frattempo, un anziano medico di corte decide di mettersi in viaggio per trovare una cura al «mondo di tristezza» in cui Yoshimasa vive: il farmaco dell’immortalità. Questo il punto di partenza del racconto, accuratissimo nei dettagli storici ed estremamente suggestivo nelle atmosfere. Il linguaggio sovrabbondante e barocco è reso magnificamente dall’elegante traduzione di Virginia Sica (tra i massimi esperti italiani di Mishima) e le sensazioni visive e olfattive emergono prepotenti dal testo. Ad accompagnare l’isolamento dolente e sepolcrale di Yoshimasa è una tartaruga centenaria, presenza enigmatica e assai significativa, emersa dal profondo del lago recandone con sé l’odore del fango e della putrefazione. In Neve di primavera, il primo romanzo della tetralogia Il mare della fertilità, ultima fatica e testamento letterario di Mishima, sono proprio le tartarughe di uno stagno a turbare l’animo del giovane protagonista Kiyoaki, «facendosi strada tra le alghe maligne e i sogni che decompongono il tempo». Kiyoaki morirà giovane e il suo amico più caro, come l’afflitto Yoshimasa, trascorrerà il resto della vita a cercarne lo spirito, trasmutato chissà dove.