Secondo la scrittrice e critica Fran Lebowitz, che ne ha curato un noto ritratto alcuni anni fa sulla Paris Review, John O’Hara è uno scrittore sottovalutato per il semplice motivo che «ogni singola persona che lo avesse conosciuto lo odiava». L’alcolismo, una certa inclinazione all’autoesaltazione e le tendenze conservatrici hanno sicuramente nuociuto alla sua fama, ma il riconoscimento che gli arrise in vita non fu certo effimero: Ernest Hemingway, Dorothy Parker, Francis Scott Fitzgerald e William Faulkner tra gli altri spesero per l’autore nativo della Pennsylvania parole di elogio e in alcuni casi di vera e propria celebrazione, e anche tra le generazioni successive, l’apprezzamento – John Updike su tutti – non è mai venuto meno.

Di O’Hara in Italia sono passati senza fare troppo rumore, oltre a una manciata di racconti, alcuni romanzi, la parte forse meno interessante della sua narrativa (su cui pure investì molto emotivamente e artisticamente per diversi decenni), forte piuttosto dei suoi celebri racconti brevi. Si tratta delle «New York Stories», che da lui in poi hanno fatto quasi genere a sé e che sommersero la redazione del New Yorker facendo di John O’Hara la firma più presente di sempre sul settimanale con oltre duecento racconti (alla fine degli anni quaranta la collaborazione si interruppe – rottura che durò diversi anni per poi riprendere negli anni sessanta – per la pretesa di O’Hara di essere pagato anche per le storie non pubblicate, visto che le riteneva scritte e pubblicabili solo per il New Yorker).
Bompiani recupera parte di questo prezioso lascito, sulla scorta della edizione nei «Penguin Classics» di alcuni anni fa, proponendo nella collana dei «Classici contemporanei» The New York Stories (traduzione di Maurizio Bartocci, pp. 480, € 16,00).

Tra le molte e buone ragioni per rileggere – o scoprire – i racconti di O’Hara, ciò che spicca di questa edizione italiana è l’accuratezza dei ritratti femminili: spesso attraverso i dialoghi, le donne di O’Hara si svelano con dolorosa parsimonia, senza nessuna retorica, in racconti che solo in qualche caso lambiscono il cinismo, e molto più spesso trovano una grazia e una onestà disarmanti («Posso rimanere qui?» e «La macchina del nulla» ne sono un esempio). In generale le New York Stories rivelano, oltre il supposto «realismo» degli interni newyorkesi, lasciati per lo più sullo sfondo, una prosa musicalmente protesa verso una rivelazione – psicologica, sociale o esistenziale che sia. Questa ricerca è evidente in quei racconti attraversati da diverse tematiche, e caratterizzati da un andamento quasi rapsodico che in una short story non sembrerebbe poter trovare posto.

I racconti di O’Hara – ma forse sarebbe meglio passare direttamente alla definizione di ritratti – restano vividi ben oltre il contesto che descrivono, e anche se forse questa non era l’intenzione dell’autore, che orgogliosamente si riteneva un cantore della propria epoca, suggeriscono inaspettate analogie al lettore di oggi, che nei personaggi di «La macchina del nulla» o «A vita privata» può rivedere volti e dialoghi più familiari di quanto possa sembrare a un primo sguardo.
Un’altra iniziativa editoriale interessante, e per certi versi complementare a quella di Bompiani, viene da Racconti edizioni, che propone la trilogia di novelle Prediche e acqua minerale cominciando da La ragazza nel portabagagli (traduzione di Vincenzo Mantovani, pp. 128, € 13,00). Accattivante a maggior ragione perché il principale personaggio richiama la biografia dello stesso O’Hara – partito da giovane come reporter e «press agent» di un’agenzia cinematografica – la novella mostra una volta di più come dal solo dialogo l’autore sia in grado di distillare sfumature e allusioni perfettamente credibili su qualsiasi argomento, dall’amore all’alcol, dal sesso alle ambizioni personali.