Non solo sentimento, non soltanto ricordi. O aspirazioni, o annunci o espressioni dell’io nella parola. La poesia, afferma con passione teoretica Eugenio Mazzarella, è «istituzione linguistica del mondo» (Perché i poeti. La parola necessaria, Neri Pozza, pp. 160, euro 14), è la custodia necessaria di ciò che accade mentre sta accadendo: «custodia della soglia del senso, nella carne del mondo».

IL FARE POETICO è molto più che Poesie, un dire raffinato e limpido le cose, un «canone formale o genere letterario»; la parola dei poeti è Dichtung, un dire che porta a evidenza, comprensione e dolore ciò che di più radicale gorgoglia nelle vite.

La poesia è il mondo stesso che prende la parola, che si fa parola, in modo che dei corpi-mente possano comprendere l’infinito eventuarsi della luce, la cui sostanza è inseparabile dall’ombra; l’eventuarsi del chiarore che emerge da ogni buio; l’apparire della verità che è il manifestarsi finalmente della gioia; è l’apertura del cammino verso «un paese della luce che si apre e verso cui si ascende, la verità verso cui si corre abbracciandola postulata da ogni metafisica, o una fisica della semplice vita che se ne va, che chiede più luce».

La poesia è nel suo dire un farsi, è – dicono i linguisti – sempre performativa, nel senso che attraverso il dire crea dei mondi, delle realtà, delle situazioni, delle condizioni, delle vite. E quindi la poesia è esattamente una «poiesi originaria», la quale per prima ha nominato nella storia il divino e in questo modo lo ha portato a esistenza e manifestazione, a teofania. La poesia è una poiesi sacra che ha come medium, veicolo e strumento il verbo, la parola.

Una «poiesi linguistica», dunque, che fa apparire il mondo «e lo mette in essere nella sua sostanza di relazione, di risposta a un appello», a una varietà di chiamate ad alcune delle quali Mazzarella dà voce critica e con le quali si pone a confronto in una comprensione partecipe e dialettica.

LA CHIAMATA della mente bicamerale di Julian Jaynes, quell’ascolto originario che intramava e rendeva sonoro un intero emisfero del cervello umano, il destro, che ora appare silenzioso ma che è stato per millenni luogo di parole, ordini, consigli e istituzioni che gli umani sentivano provenire non da sé ma da un mondo comune e condiviso, a garanzia di una pienezza trascendente, di una verità non solitaria, non spenta.

La chiamata di Qohélet, della polvere, del nulla. Un libro, il Qohélet, con il quale Mazzarella conduce un vero e proprio corpo a corpo, per resistere alla fascinazione che da quelle antiche righe sembra provenire ma cedere alla quale significherebbe andare oltre una consapevole «ontologia della labilità» per precipitare dentro il niente della morte «come normalità», dell’«universo freddo».

La chiamata di Leopardi, della sua grande metafisica materialistica, della «peculiare gnosi poetica» che si dispiega nello Zibaldone, nelle Operette morali, in alcuni dei canti più famosi ma forse anche più incompresi nell’intollerabile lucidità del nulla che li assale.

«Sguardo sul nulla» è infatti il titolo delle pagine dedicate a Leopardi e alla «infinità materiale del cosmo» dentro la cui sostanza il filosofo poeta di Recanati cercava e forse trovava pace. Non così il poeta filosofo Mazzarella, nel cui andare teoretico ed esistenziale abita una serena esigenza di assoluto che si indirizza verso altre opzioni, altre strade e altre fedi. E che finalmente con questo libro ha dato voce alla poetica che sostiene il suo cammino teoretico, una poetica inseparabile dai suoi stessi versi, i quali ricevono luce, chiarimento e spiegazione da questo libro che illumina la sostanza dello scrivere poetico.

LA SCATURIGINE unitaria e molteplice di poesia e filosofia nel pensare e nel dire di Eugenio Mazzarella ha dunque trovato ora un luogo sistematico, dove il sistema, il suo sistema, è toccare l’ineffabile.