Lo strappo con il governo è forte, anche se ingentilito da parole di circostanza. Le dimissioni di Sergio Chiamparino da presidente della Conferenza delle Regioni sono irrevocabili e sono state congelate fino alla conclusione delle trattative sui tagli alla sanità contenuti nella legge di Stabilità. A pesare, certo, c’è il disavanzo da 5,8 miliardi di euro della sanità piemontese accertato dalla Corte dei Conti, ma i motivi sono profondamente politici e confermano l’esistenza di una forte tensione con Palazzo Chigi.

Una delle poche cose certe della finanziaria, ancora ieri in corso di «limatura» e data sulla strada verso il Quirinale, è il taglio al fondo sanitario nazionale dai 113 miliardi promessi a luglio ai 111 miliardi confermati da Renzi. Chiamparino ha specificato che una parte dei tagli da 2,2 miliardi sono stati «neutralizzati»: in pratica, ha ottenuto uno «sconto» da 1,3 miliardi, portando il taglio a 900 milioni di euro. «C’è un lavoro – ha aggiunto – da fare utilizzando il fondo per il riacquisto dei bond, la possibilità’ di riutilizzare il disponibile per coprire una parte dei tagli. Se va in porto questo la parte extra sanità è in parte coperta». In mancanza del testo «ufficiale» i presidenti delle regioni ieri ignoravano se gli 800 milioni dei nuovi Livelli essenziali di assistenza (Lea) sono compresi nei 111 miliardi del fondo sanitario nazionale. In caso affermativo, l’aumento di un miliardo del Fondo promesso dal governo solo qualche giorno fa sarebbe «neutralizzato». Il «gruzzoletto» per la sanità di cui ha parlato Renzi diventerebbe addirittura «incapiente» se il contratto dei medici (400 milioni) e la spesa per i farmaci innovativi o per combattere l’epatite C (600 milioni) fosse addebitato al Servizio Sanitario nazionale. «Una risposta da parte del governo non è irrilevante per capire se questo miliardo in più messo in legge di stabilità nel fondo sanitario è sufficiente o no» ha detto Chiamparino.

Questa era ieri la fotografia del caos provocato dall’annuncite di Renzi. Altri nodi sono arrivati al pettine delle regioni: il divieto imposto dal governo di aumentare le tasse locali, ad esempio. L’annuncio di Renzi ha preso in contropiede le regioni al punto da portare Chiamparino ad escludere una simile misura: «Non credo sia possibile, al massimo può arrivare una moral suasion – ha detto – Certamente la nostra intenzione non è mettere nuove tasse». Ma questo non è affatto detto. Dipende dall’entità dei tagli in arrivo alla sanità. Nel profluvio delle voci incontrollate ieri è spuntata una clausola fatale: l’aumento automatico delle addizionali Irpef e Irap. Per evitarlo, le regioni potranno aumentare i ticket sanitari. Lo ha sostenuto Massimo Garavaglia, coordinatore degli assessori regionali al Bilancio il quale, in poche parole, ha riassunto le conseguenze dei tagli in una politica dell’austerità. «Il disavanzo in Sanità non sempre è frutto di malgoverno – ha aggiunto – ma anche di un’eccessiva riduzione del Fondo sanitario». Tale riduzione ha messo nei guai molte regioni. Ancora oggi sono otto in piano di rientro dal disavanzo della spesa sanitaria. Lazio, Abruzzo, Calabria, Molise, Sicilia, Calabria, Piemonte, Puglia potrebbero essere costrette ad aumentare il ticket per pagare i tagli del governo al fondo nazionale.

L’aumento delle tasse non ci sarà, a meno che i governatori delle regioni in defict sanitario decidano altrimenti.La conferma è arrivata dal sottosegretario all’economia Enrico Zanetti: «Il blocco all’aumento delle tasse locali varrà per tutti fatta eccezione per situazioni straordinarie legate all’addizionale regionale per le Regioni in eventuali disavanzi sanitari». L’aumento delle tasse è qualcosa che «non deve succedere». Quanto al rischio di un rincaro effettivo nelle Regioni che più soffriranno della revisione delle risorse destinate alla sanità, «questo è uno spazio che deve essere lasciato aperto – ha spiegato ancora – ove ci siano problemi di gestione della sanità». «Tutte le altre imposte – ha aggiunto Zanetti – sono bloccate». A questo si aggiunge anche il rischio dell’aumento della tassazione sulle seconde case, per compensare il taglio di quelle sulla prima.

Ci ritroviamo, dopo il bombardamento di annunci, nel circolo vizioso dell’austerità. E poi c’è il dato politico di fondo: la gestione della sanità deve tornare allo Stato? Oppure le regioni devono continuare ad averla in esclusiva? La ministra della Salute Beatrice Lorenzin ha definito un «errore fatale» la delega della sanità alle regioni. L’uscita non è piaciuta alle regioni. E infatti ieri Chiamparino ha risposto a Lorenzin (e a Enrico Rossi della Toscana): «Se il governo ha lo stesso giudizio si prenda la sanità e la gestisca. Tra cinque anni faremo un confronto e vedremo se la sanità della Toscana, del Veneto o dell’Emilia saranno gestite meglio con una gestione centralizzata».

Sullo sfondo emerge un problema comune a molte regioni: il mancato varo del decreto «Salva Regioni» da parte del governo. Bloccato da Mattarella per un trucco contabile, il decreto è fondamentale per coprire 20 miliardi di euro di fondi per i creditori degli enti locali. è una conseguenza della restituzione dei crediti della Pa. Da quando la Corte costituzionale ha imposto di contabilizzarli nei bilanci regionali i governi hanno fatto ricorso al fondo «Salva Crediti» per erogarli. Ora che il provvedimento è bloccato, gli enti locali vedono rosso.