Un quarantennio prima che Milano prendesse le sembianze delle altre città capitali del mondo postcapitalista, anch’essa con il suo nuovo downtown di torri in vetro dalle sagome sproporzionate ma perfette per la rendita finanziaria, non si poteva ancora immaginare quale vetta avrebbe raggiunto la sua omologazione culturale così come oggi si presenta, e non solo nella sua immagine di città.
Anche la moda ne ha subiti gli effetti, così di quel «bisogno di diversità» o di quella «tendenza al distinguersi» che per George Simmel rappresentava il suo carattere distintivo si è persa progressivamente traccia. A volte è istruttivo volgere lo sguardo alla «vita metropolitana» milanese degli anni ottanta e spingersi fino ai protagonisti del fashion style per comprendere quanto sia complicato il tempo presente e come sia cambiata la società dei consumi.
L’occhio, beninteso, non va rivolto solo agli stilisti, ma a quel variegato insieme di personalità tra disegnatori, fotografi e scrittori che intorno al sistema della moda intrecciarono le loro biografie, contribuendo non poco all’invenzione di linguaggi e tendenze, sia con tecniche efficaci benché tradizionali, sia con l’estroversione sperimentale della ricerca.
La mostra Antonio Lopez, drawings and photographs alla Fondazione Sozzani, a cura di Anne Morin, direttrice di Chroma Photography di Madrid (fino al 6 settembre), illustra l’intensa ma breve attività di uno dei giovani talenti di quegli anni. Antonio, come sempre volle essere chiamato, conobbe Milano all’inizio degli anni ottanta, dieci prima dall’avvento delle inchieste di «Mani Pulite», quando nell’area dello scalo ferroviario di Porta Garibaldi, prima che l’occupassero banche e imprese multinazionali, Nicola Trussardi immaginava la «Città della Moda»: un luogo dove far confluire gli uffici delle maison, i loro showroom, gli spazi per le sfilate e un centro di alta formazione. L’industria della moda iniziava allora a confrontarsi con l’economia globale che avrebbe di lì a qualche decennio sovvertito l’ordine delle cose.
Antonio nacque a Utuado, in Porto Rico nel 1943, da una famiglia di coltivatori di avocados e morì a New York nel 1987 in seguito a una malattia aggravata dall’Aids. Emigrato con i genitori a New York a sette anni, laureato alla prestigiosa Fashion Institute of Technology, visse dal 1969 per sette anni a Parigi, dove riscosse il successo internazionale per le sue illustrazioni che inondavano le pagine di «Women’s Wear Daily», «Vogue», «Elle», «Harper’s Bazaar», «Interview». Arrivò a Milano con un bagaglio di esperienze artistiche acclarate, di relazioni invidiabili, da Karl Lagerfeld ad Andy Warhol, e famoso per essere un sicuro talent scout avendo scoperto le giovani modelle Jerry Hall, Grace Jones e Jessica Lange.
Divenuto nell’arco di poco tempo tra i più ricercati illustratori di moda, si distinse per il tratto rapsodico e coloratissimo con il quale disegnava silhouette nate da gesti che erano «scintille incandescenti», come scrisse Anna Piaggi, direttrice di «Vanity», allora il più raffinato trimestrale di «moda e stilismo» delle Edizioni Condè Nast, che lo chiamò ammirata dalla forza sensuale del suo segno grafico.
«Ho conosciuto Antonio a Parigi alla fine degli anni ’60 nel suo periodo pop-europeo – scrisse la Piaggi in occasione della mostra milanese a lui dedicata nel 1988 – e, da allora, ho sempre pensato che i punti esclamativi gli fossero dovuti, più che a chiunque altro».
D’altronde risultò vincente la sua intuizione che l’immagine fotografica non disdegnasse l’accostamento con l’illustrazione, piuttosto – come la mostra rende bene evidente –, tra fotografia e illustrazione si stabilì nell’editoria quell’utile complicità che è un peccato che si sia in gran parte persa nell’epoca del digitale.
Il periodo milanese di Antonio è meno impetuoso, eccentrico e mondano di quello parigino; identico, però, è il suo segno «elettrico», con il quale si divertiva a raffigurare la gente della ville lumière, da Sartre a Joséphin Baker, agli anonimi avventori del Café de Flore, prima di fare ritorno a New York a caccia di nuovi stimoli visivi. Anche durante il suo lungo soggiorno parigino Antonio usò con frequenza la fotografia, impiegata, però, sempre in modo strumentale, magari utile all’istante, come spiega la sua preferenza per la pellicola Polaroid. La scoperta di migliaia di polaroid custodite in scatole all’Antonio Lopez Foundation fu una sorpresa per Roger e Mauricio Padilha, autori della prima completa monografia su Antonio (Antonio Lopez: Fashion, Art, Sex, and Disco, Rizzoli, 2012). Tuttavia, il suo interesse per le istantanee non si può limitare al diario fotografico di chi frequentava o transitava nel suo studio, utile a lui e al suo partner, il direttore artistico Juan Ramos.
I suoi scatti possiedono una propria autonomia estetica che denotano una sensibilità non comune data anche dall’amicizia con chi diverrà un riferimento per la fotografia di moda, come David Montgomery o Bill Cunningham. Ricordiamo che nel 1966 fu per merito di Antonio se Montgomery iniziò alla fotografia David regalandogli una piccola Olympus Pen-D e invitandolo a «usarla come taccuino».
Anche a Milano, ad Antonio non mancarono gli incontri con fotografi, uno in particolare: Alfa Castaldi, marito di Anna Piaggi e tra i più versatili interpreti della società, del costume e della moda italiani. Bene è stato avere esposto, su una parete della libreria della Galleria, una selezione di suoi scatti in bianco e nero con ritratti in studio di Antonio: ora da solo, ora avendo a fianco i giovani Versace (Gianni e Donatella), tutti in posa solenne, ora intento a disegnare indossando la cravatta come un serio impiegato.
Nelle stanze della moda milanese, diviso tra le redazioni di «Vogue» e «Vanity» e la sede dei Missoni – per i quali eseguì trentaquattro straordinari disegni poi raccolti da Graziano Frediani nell’agile volume La moda sognata da Antonio Loperz/Antonio’s Dreams (Hazard Ed. 2001) –, ad Antonio appariva ormai distante il tempo del pop newyorkese, dei balli sulle note della musica soul allo Studio 54, insomma dell’eccentrica energia che gli procurava la street fashion. Davanti al «tutto nuovo, di nuovo» di Milano, che lo attrasse in modo irresistibile, il suo stile carico ed eclettico trovò un ambiente diverso nel quale misurarsi: e così, come scrisse la Piaggi, egli poté «lasciarsi alle spalle la definizione di commercial artist e fare solo della pittura», in altre parole «rinascere come “pure artist”». Si trovò «faccia a faccia con l’high tech, il design, l’ossessione dei dettagli», in un contesto borghese poco incline all’eccentrico.
In quegli anni Umberto Eco distingueva, oltre alla «Scrittura di Esecuzione» (o di obbedienza) e alla «Scrittura di Eversione» – a seconda che si seguissero o meno le «regole» della Letteratura –, anche le «Scritture di Spiazzamento»: che le regole non le seguono affatto, e «prendono dalla vita quotidiana, e altri soggetti». Se applicassimo all’illustrazione di Antonio Lopez la stessa distinzione, allora comprenderemmo bene quanto fossero «spiazzanti» le sue figure di donne e uomini, seducenti, giovani ed esagerati dentro i loro abiti. Facevano anch’essi parte di quel «panorama in movimento», «sintomo» di un cambiamento che non era facile capire. Qualche decennio più tardi, per molti sarebbe stato il peggiore.