«Quando ci dimentichiamo del carattere immaginario delle finzioni, quando dimentichiamo che sono fittizie, ecco che allora regrediamo nel mito», scriveva Frank Kermode in Il senso della fine, il suo seminale saggio del 1967 sulla teoria del romanzo: cosa succede quando dimentichiamo che la fiction pesca nel regno dell’immaginario e quando ad abbattere il muro fra realtà e finzione è l’autore stesso? È da questo rovello che Tanizaki Jun’ichiro avvia Nero su bianco, recentemente edito da Neri Pozza (traduzione di Gianluca Coci, pp. 265, e 17,00).

Ecco l’errore fatale
Un maturo scrittore ormai avviato al declino, di nome Mizuno, ha appena consegnato alla rivista «Minshu» il suo ultimo racconto, «Fino a uccidere un uomo», la storia di un crimine perfetto, commesso da un uomo senza morale, ossessionato dal desiderio di scoprire se sia davvero possibile non lasciare indizi. Senza alcun legame con l’assassino, la vittima di questo delitto filosofico e gratuito, ha invece un forte nesso con l’autore, che si è ispirato a una figura reale, un oscuro e insignificante redattore. Quando il racconto è ormai in stampa, Mizuno realizza con spavento di avere commesso un errore: ha usato in alcuni passaggi del testo il nome vero della vittima, anziché quello fittizio. Da questo punto in poi il lettore è trascinato nelle paure paranoiche dello scrittore, nella sua mente, dove vengono proiettate in un montaggio schizofrenico le immagini prodotte dal suo «cinematografo interiore».

Chiunque sia avvezzo alle tecniche del noir intuisce rapidamente lo sviluppo degli eventi, ma il piacere della lettura, più che nella logica dei fatti è nella struttura della trama, nella bellezza dell’architettura che si genera dalla maestria con la quale l’autore, dopo il 1924 sempre più interessato agli aspetti performativi della narrazione, gioca con le voci e i piani narrativi e confonde fiction e realtà.
Affacciatosi al mondo della letteratura nell’epoca Taisho, che corre dal 1912 al 1926, come altri autori della sua generazione Tanizaki vedeva nella neonata narrativa poliziesca, ispirata in origine ai grandi maestri d’oltreoceano Poe e Conan Doyle, un genere perfetto per dare voce alle inquietudini e ai demoni risvegliati dall’avvento precipitoso della modernità. In Giappone, la detective fiction diventò presto un mezzo per esplorare istanze e questioni sociali legate ai recenti processi di inurbamento, ma anche al disagio psicologico e a devianze comportamentali e sessuali fino ad allora tabù.

Scritto nel 1928, Nero su bianco è dunque molto più di un romanzo criminale, è una storia senza storia dove il vero e il falso, il reale e l’immaginario si mescolano continuamente in un infinito gioco di specchi e di illusioni. Dice Mizuno: «…nella vita di tutti i giorni, quando ho a che fare con gli altri, io mento, e anche molto. Ma nell’attimo in cui prendo la penna e m’impegno nella creazione, mi presento così come sono, nudo e con coraggio, pur sapendo quali siano i rischi cui vado incontro». Al centro dell’interesse di Tanizaki sono i desideri e le pulsioni sepolte nella psiche, insieme ai quali ritroviamo molti altri tratti ricorrenti della sua poetica: il voyeurismo, il diabolismo – citato esplicitamente come filone nel quale rientra la produzione della voce narrante cui si affida – il fascino della femme fatale, il feticismo, la passione per il cinema.

Fondamentali le voci
In un momento storico culturalmente dominato dal romanzo confessionale, in giapponese shishosetsu (letteralmente romanzo dell’io, dal tedesco Ich-roman), il romanzo funziona anche come parodia di un racconto autobiografico. Tanizaki è considerato dalla critica uno dei principali oppositori di questa forma narrativa germinata dalla declinazione nipponica del naturalismo: diceva che i romanzi dove si riportavano nudi episodi della vita dell’autore, o troppo marcatamente realistici, non suscitavano in lui alcun interesse, sebbene poi, negli anni Venti, abbia scritto diverse opere apparentemente autobiografiche, spesso in forma di confessione, facendo del conflitto arte/vita un nodo centrale della sua produzione.

Fondamentali erano, per lui, una trama accattivante e una solida struttura architettonica, ma con gli scrittori naturalisti condivideva la profonda convinzione dell’alto valore della letteratura e l’accento sul desiderio come chiave per la conoscenza e la verità. Con uno sguardo ironico e distaccato, attraverso una sapiente e raffinata manipolazione delle voci narrative Tanizaki mette in guardia il lettore dall’eccesso di autoreferenzialità e dalla ricerca ossessiva del realismo. Quando dimentichiamo che la narrativa è fiction, sembra dire in Nero su bianco, regrediamo all’incubo, ben oltre quel mito evocato da Kermode.