Nell’immaginario di molti appassionati non solo di cinema, ma anche di fumetti, letteratura, musica, in quel coacervo di linguaggi comunicanti, ontologicamente comunicanti, a prescindere da ciò che sarebbe letteratura e paraletteratura, immagine cristallina e vignetta o icona a bassa risoluzione, nota minima e accordo screziato; il 2019 era, e forse resterà, l’anno di Glass (a maggio in home-video). Che poi «appassionati» è una tautologia, visto che non capisco come non si possa avere un interesse anche spasmodico verso cose che riguardano, interpretano, sublimano da sempre lo stare al mondo, l’identità del soggetto di generazione in generazione. E se penso all’intersezione tra questi linguaggi e tra i loro diversi stadi, ciò che di solito viene considerato alta cultura e quello che appare di più basso profilo, o, meglio, derivato, mi viene in mente Michele Mari, soprattutto Tu, sanguinosa infanzia che mette sullo stesso piano i libri di Poe, Conrad, Melville, i giornalini dell’infanzia, goduti proprio feticisticamente, nella loro carta profumata, patinata, la collana di fantascienza «Urania» con le sue copertine evocative, ecc.; cioè tutta quella zona contrassegnata dalla particella «para-» che designa una deviazione d’ambito rispetto al semantema, un approdo in un luogo di sedimentazione di nuovi significati: qualcosa di simile alla letteratura (mettiamo, i fumetti: appunto paraletteratura) o qualcosa di simile al cinema (la serie televisive) e così via.

È IN VIRTÙ del prefisso para-, che indica lo slittamento del nome «cinema» verso un terreno spurio, di alterazione, che la trilogia di Shyamalan, progettata e disposta a mosaico perfetto entro un arco di tempo di 19 anni, diventa una delle cose più sorprendenti degli ultimi anni: tra cinema e fumetto, film di genere e classico, realismo e mitologia. Il suo cinema migliore è tutto in questo para- che oltre a dire la commistione di materiali (alti e bassi) indica soprattutto una poetica da cui poi quella commistione deriva: un aspetto intimo, profondante e quindi il metabolismo dei suoi film più rappresentativi. È il transito verso qualcosa che è vicino ma allo stesso tempo supera l’archetipo, arriva a contrapporvisi, transito fondante di questo cinema: dalla psicologia alla para-psicologia. In effetti il prefisso allude a qualcosa che somiglia ma anche a qualcosa che, su quella strada metonimica, si evolve nel suo contrario: un’attenzione scientifica, documentale verso la mente e l’affettività umana che diviene, mediante quello stesso tessuto psicologico, illustrazione di una sfera fantastica formatasi sulla scorta di capacità psichiche e umane non spiegabili scientificamente.

UN TRANSITO che però è tale nella misura in cui se ne possa prevedere un ritorno (e poi ancora un travalico e un ritorno ancora, ecc.) proprio attraverso la commessura, il passaggio costituito dal para-, stabilendosi alla fine in una o nell’altra dimensione, o nel mezzo: infatti se nel Sesto senso, nell’andirivieni dell’ottica shyamalaniana tra realtà e fantastico, si trattava dello svelamento di ciò che pareva psicologico o psicopatologico (il bambino che vedeva la gente morta) nella verità ultima del parapsicologico, in film come The Village o The Visit prevale il sostrato psicologico e psicopatologico (i due nonni in The Visit non sono mostri bensì due pazzi scappati dal manicomio), cioè la dimensione realistica a fronte dell’impressione soprannaturale che se ne era avuta per larghi tratti dei film. Quello di Shyamalan è un continuo oscillare, attraverso il para-, tra queste due prospettive, nel tentativo di giungere a un amalgama in cui esse si confondano e di cui dia conto quello speciale documento storico che sarebbe il fumetto prima e poi il cinema.
È nel prefisso, in quel lembo di passaggio che porta al nome composto, che sembra stabilirsi la trilogia di Shyamalan, facendovi convergere psicologia e fantastico, anzi sussumendo il soprannaturale al naturale, al normale. In effetti più che di super-poteri dei supereroi bisognerebbe parlare di poteri aumentati da parte di quelli che sono eroi para-mitologici, cioè più vicini a Ulisse, Achille, Ercole, che a Superman o agli X-Men: viene cioè mantenuto da Shyamalan un rapporto stretto con la terra e la mitologia tanto che il Vigilante o la Bestia possono vantare a loro favore solo una forza fisica, restando aderenti alla terra, e una veggenza che derivano da una sensibilità tutta umana, solo accresciuta, amplificata, così come per Mr. Glass, la cui intelligenza vertiginosa sembra essere quella di Ulisse più che del Professor X.

IN QUESTO SENSO allora i fumetti, nella lettura che ne dà Elijah, sarebbero una nuova forma di epica (quindi una para-epica), risultanza dei racconti, tra storia e leggenda, che si sono tramandati nel tempo a proposito di un’umanità straordinaria quanto misconosciuta, contrastata: non una stirpe sovrumana bensì para-umana, diretta emanazione (per via metonimica) e sublimazione dell’uomo, delle sue prerogative: i poteri dell’Orda, ad esempio, sono frutto dell’acuirsi di un dolore «umano troppo umano», di una psiche devastata, una psicopatologia al quadrato che condiziona anche il corpo conferendogli la capacità di camminare sui soffitti come i ragni. Chi misconosce questa para-umanità «dal forte sentire» (anche David Dunn ed Elijah sono segnati in diverso modo dal dolore) pare essere della stessa specie dei «realisti» che in eXistenZ erano intenti a sopprimere il virtuale, cioè le infinite possibilità di riverbalizzare la realtà attraverso le proprietà mentali. Allora Mr. Glass, entro l’intervallo del suffisso che si consustanzia nello spazio del parcheggio fuori dalla casa di cura, si fa regista, manipolando la macchina da presa non solo per mettere in primo piano ciò che era negato, cioè il lato paranormale della natura, ma anche per mostrare i meccanismi della messa in scena, del racconto, del disegno a fumetti, come quando Casey, la signora Price e Joseph Dunn escono dal portone del manicomio e vengono indicati da Elijah come i protagonisti forse di una storia, di un universo che da qui e da una stazione sta per ricominciare. Solo entro questi meccanismi, e nel regno transeunte che essi definiscono, entro la zona delineata dal prefisso che ora è stazione di transito in cui stanno attoniti, in attesa i tre superstiti, può presentarsi «il momento in cui entriamo nell’universo».