Ci fu un tempo, in Italia, in cui l’etichetta «pop», applicata alla musica, significava contemporaneamente una sorta di ombrello pan-stilistico buono per ogni evenienza, e, fatto ancor più curioso, anche l’opposto rispetto a quanto intendiamo oggi, musica di facile confezionamento e altrettanto facile presa. Ci fu un tempo in cui la parola «pop» significava dunque sia «rock», sia «qualsiasi cosa vogliate ascoltare, e che non rientri nei canoni di quanto vi fa vedere la televisione o vi trasmetta la radio di stato». Non a caso, e provocatoriamente, il più grande gruppo di confine del rock di quegli anni, gli indimenticabili Area di Demetrio Stratos, al nome usavano accostare la dizione «International (pop)ular Group». In realtà quel «pop» era contrazione a uso di un nuovo mazzo di subculture stilistiche di «popular», cioè del termine anglosassone che raggruppa fenomeni che coinvolgono larghe fasce di popolazione, soprattutto giovanili, a partire dal secondo dopoguerra, fenomeni che stanno molto spesso in bilico precario tra ragioni di mercato e consapevole produzione artistica. Si pensi ai Beatles. O ai Pink Floyd.
L’etichetta-ombrello e il riferimento a un rock ancora inquieto, per nulla adottato nei miti e riti della televisione sonnacchiosa furono centrali per tre anni di eventi, appunto «pop» che, sorprendentemente, non coinvolsero quella parte d’Italia che s’immagina sempre come la più aperta e reattiva nei confronti dei nuovi consumi culturali, dunque il Nord e la Capitale. Per tre anni, accanto agli eventi che coinvolgevano Milano e Bologna, Roma e Genova fu sempre necessario accostare il nome di una città molto, molto più a sud. Palermo. Sede per tre anni consecutivi delle indimenticabili edizioni dell’affollatissimo Palermo Pop Festival. Due almeno memorabili. Dal 1970 al 1972. La prima nel luglio del 1970, esattamente mezzo secolo fa, dal 16 al 19. Fu un vero «evento», in un’epoca in cui, sempre a proposito di termini, non si abusava della parola come oggi, che è diventato «evento» qualsiasi cosa accada. Fu qualcosa di straordinario, che lasciò un segno nelle coscienze e nei gusti di una generazione, che rivelò prospettive musicali, culturali ed esistenziali inattese, e fu anche, caso abbastanza unico, un modo per mettere a confronto direttamente lacerti diversi e per nulla complementari della «cultura pop»: in un affollatissimo range stilistico di proposte che spaziavano in realtà dal jazz più mainstream che esistesse all’avanguardia art-rock pura. Dalla canzone leggera alla francese al folk revival che non aveva ancora fatto incetta di frecce per la propria faretra, ed era ancora la generazione che aveva appena fatto seguito agli eventi di Bella Ciao e Ci ragiono e canto.

JOE NAPOLI
L’idea del festival pop di Palermo, che raccolse 80/100mila persone in un luogo che era stato fino a quel momento periferia dell’impero, per i concerti «anche» rock, era venuta a Joe Napoli, manager siciliano che, appoggiato economicamente dall’Azienda autonoma di soggiorno e turismo di Palermo si decide a fare il grande passo verso il rock, scavalcando i festival di Nervi, Pescara, Verona, Lerici, ancora totalmente dediti al jazz. La bella locandina, oggi oggetto di collezionismo, presenta il tutto come «Sicilian International Folk Rock Jazz Festival», figura centrale un agitatissimo Robert Plant dei Led Zeppelin, annunciati ma clamorosamente assenti. Come non ci saranno Pink Floyd, Who e Rolling Stones. Ma attenzione, non è che le assenze eccellenti non siano state compensate da presenze ben più che significative, per i moltissimi giovani che cominciano a sciamare sull’erba della Favorita nel primo pomeriggio del 16 luglio, e per il giudizio che ne daranno, a posteriori, anche importanti manager europei. Per i ragazzi con i capelli lunghi e le ragazze che indossano molti colori su generose porzioni scoperte di epidermide, nella calura, conta più la nuova esperienza dello stare assieme, del cercarsi, del riconoscersi, in quello che appare a tutti gli osservatori come una sorta di Woodstock o, meglio, Isola di Wight tricolore. Con tutti gli annessi e connessi legati ai megaraduni, come vedremo.
La musica c’è, ed è il collante: sei-sette ore al giorno, per quattro giorni, dalle sei di sera alle 2 del mattino, trecento musicisti coinvolti. Ci sono anche le telecamere importanti, che per fortuna hanno salvato molte delle immagini significative: non solo la Rai, ma anche la Bbc, e operatori e giornalisti dal Brasile, dall’Olanda, dalla Francia, dalla Germania occidentale. In rete è facilmente rintracciabile un bel filmato, ma sarebbe il caso, forse, di riunire e vagliare tutto il materiale esistente.

ORDINE VIOLATO
Carlo Loffredo, jazzista e presentatore e Mariolina Cannuli, la «signorina Rai» degli annunci televisivi sono incaricati di premiare Duke Ellington con la «Trinacria d’Oro»: il Duca, allora settantunenne, sorride e lancia saluti con la sua consueta eleganza, poi si lancia con la sua orchestra ancora scattante in un set memorabile, in cui riecheggiano le note della New Orleans Suite. Aretha Franklin raduna davanti a sé quindicimila persone: una scarica d’energia che compensa, almeno in parte, il suo essere arrivata in ritardo e parzialmente stordita dal whisky.
Le telecamere hanno catturato poi uno spiritato ed efficacissimo Tony Scott, all’epoca glabro come una palla da biliardo, scatenato in un «blues soul» inzuppato di dissonanze acri. Attorno gli volteggia una ragazza, poi si unisce sul palco un’altra ragazza provocante e discinta: è una giovanissima Loredana Bertè. Sensuale e provocatorio anche il set della stella del rock d’oltralpe, Johnny Hallyday, all’epoca consorte di Sylvie Vartan, ma la palma della provocazione spetta ad Arthur Brown, l’underground londinese in presa diretta siciliana: si presenta con un elmo in fiamme, sfascia microfoni e corde di pianoforte, grida come un’aquila, alla fine si spoglia platealmente, e si fa arrestare per atti osceni in luogo pubblico.
Stessa sorte, l’arresto, che tocca anche al cantautore-cantastorie Franco Trincale: per aver declamato stentoreo, sonori «Nixon boia» nella sua canzone contro la guerra del Vietnam. Rosa Balistreri sfodera il suo repertorio folk acre e disilluso, oggi riscoperto dalle nuove signore del folk, altre scintille rock arrivano con l’organista Brian Auger (che si presenta col suo pargolo nello zaino), i bizzarri Blossom Toes, e gli olandesi Ekseption, specialisti nella rivisitazione prog rock della musica classica. Ma c’è anche il versante ironico e pop di Nino Ferrer e Ricchi e Poveri. Palermo Pop tentò e trovò il bis l’anno successivo, nel ’71, il 5, 6 e 7 settembre, nello spazio de Le Pietrine, stelle dure e torve i Black Sabbath, ma anche i Colosseum di Jon Hiseman, autore di un memorabile assolo alla batteria, e poi i Tucky Buzzard messi assieme da Bill Wyman dei Rolling Stones, Pretty Things, Toad, e un parterre di bei nomi dal migliore progressive rock italiano nascente: Osanna, Claudio Rocchi, Circus 2000. Stormy Six, i Clan Free, Living Blues, Delirium, cui tocca di ripetere all’infinito Jesahel, nelle fasi concitate in cui poliziotti e carabinieri tentano di arginare gli ingressi a valanga di ragazzi intenzionati a non pagare il biglietto. Rosanna Fratello rimedia insulti e sacchetti di spazzatura, un anticipo di quanto avverrà nella più dimessa edizione finale del Festival dell’anno successivo, svoltasi nel campo di calcio della borgata Vergine Maria: lì il bombardamento di oggetti investe gli inglesi Mungo Jerry, che cercano stizziti di non mollare il palco mentre attorno gli animi sono sempre più esasperati dalla tensione creatasi tra ragazzi e agenti,tra spintoni e accuse incrociate. Ordine »violato», peraltro, anche dalla scoperta di una giovane coppia che stava tranquillamente facendo l’amore in mezzo al pubblico. Qui, assai simbolicamente, finiva l’avventura «pop» di Palermo.