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Genova, comizio di chiusura della campagna elettorale di Andrea OrlandoGenova, comizio di chiusura della campagna elettorale di Andrea Orlando

Opposizioni Guardando ai numeri è una sconfitta di misura. Ma guardando al valore politico del voto in Liguria, per le opposizioni è stata una disfatta. Si votava infatti sulle macerie del centrodestra

Pubblicato 26 giorni faEdizione del 29 ottobre 2024

Guardando ai numeri è una sconfitta di misura. Ma guardando al valore politico del voto in Liguria, per le opposizioni è stata una disfatta. Si votava infatti sulle macerie del centrodestra. La giunta Toti è stata abbattuta da un’inchiesta giudiziaria che, con tutti i limiti che il manifesto non ha messo tra parentesi, ha fatto luce su una gestione del potere disinvolta e una corruzione strutturale. Soprattutto la crisi aperta dai giudici ha scatenato le tensioni nel centrodestra, con l’imbarazzo di gestire un presidente uscente reo confesso e i lunghi coltelli tra leghisti, forzisti e meloniani. Tensioni restituite anche dallo scrutinio, se si guarda all’astensione abissale registrata nella provincia di Imperia, feudo della destra (e di Scajola) senza la quale Bucci avrebbe vinto assai più facilmente. Ma ha vinto lo stesso, in una gara alla quale hanno deciso di partecipare in pochi: assai meno di un elettore su due è andato a votare ed è ormai una triste abitudine.

Bucci invece ha perso proprio a Genova, la città di cui è – era – sindaco e che adesso dovrà tornare al voto. Un giudizio pesante per la sua esperienza di primo cittadino ma non esattamente una sorpresa, visto che il centrosinistra in città era risultato in testa anche alle recenti europee. Elezioni, queste ultime, che in tutta la regione avevano restituito un centrosinistra più in salute del centrodestra. Il che non fa che rendere più pesante la sconfitta di ieri.

Parliamo di una sola regione e di un’elezione alla quale hanno partecipato meno di mezzo milione di elettori, dunque ogni discorso è relativo. Ma il modo in cui questa sconfitta è arrivata accende un segnale di allarme per tutta l’opposizione che vale anche a livello nazionale. Innanzitutto è evidente l’incapacità del centrosinistra di mostrarsi, se non essere, unito. La destra, che pure è percorsa da ogni genere di tensione, ci riesce. Mentre persino la composizione del centrosinistra è stata il risultato di minacce e ultimatum. Renzi è rimasto fuori perché il Pd ha accettato l’aut aut di Conte, ma anche se la vittoria è stata decisa per poche migliaia di voti non per questo si può dire che Italia viva sarebbe stata più utile che un peso. Lo prova il fatto che i centristi rimasti nello schieramento di Andrea Orlando, sostanzialmente indistinguibili da Renzi quanto a proposta politica, sono andati molto male.

Non contento della cattiva partenza, il centrosinistra ha mandato cattivi segnali anche durante la campagna elettorale. Colpa in questo caso soprattutto del Movimento 5 Stelle e del suo presidente che ha pensato bene di forzare la rottura con Grillo nei giorni decisivi per la regione (regione, peraltro, dove Grillo risiede e ha il massimo della notorietà). Ci sono molte ragioni per pensare tutto il peggio del modo in cui il fondatore del Movimento intende mantenere la presa su quella che fu la sua creatura, sia con motivazioni politiche che con motivazioni economiche. Ma certo non si può scoprire adesso che i 5 Stelle sono nati come partito proprietario e che Grillo ha l’indole del padre padrone: l’aveva anche quando decise di impiantare a palazzo Chigi lo sconosciuto Giuseppe Conte. Come già le precedenti regionali (Sardegna, Abruzzo, Basilicata e Piemonte) anche la Liguria ha dimostrato che a Conte la sfida per il governo nei territori interessa assai meno di quanto stia a cuore al Pd. Ed è dispostissimo a sacrificare le chance di vittoria alle regionali per tenere il punto in vista della competizione nazionale. Nella quale, con tutta evidenza e malgrado la serie di rovesci del Movimento, immagina ancora di potersi giocare le sue carte di aspirante leader.

Intanto le elezioni in Liguria le ha perse un candidato del Pd (film già visto, nell’ultimo anno la sola vittoria del centrosinistra nelle regioni ha arriso a una candidata 5 Stelle). Ma il partito di Schlein non è andato male: ha mantenuto sostanzialmente, malgrado la crescita dell’astensione, i voti delle europee. Percentualmente ha fatto anche meglio del giugno di quest’anno e delle politiche del 2022. In Liguria il Pd è il primo partito e ha il doppio dei voti del partito della presidente del Consiglio, Fratelli d’Italia. La differenza è che intorno a Fratelli d’Italia c’è una coalizione e intorno al Pd dei compagni di strada. Basta un dato: in Liguria il partito più grande del centrodestra (appunto Fdi) è accompagnato da quattro liste oltre il 2% e ha in media il doppio dei loro voti. Mentre il partito più grande del centrosinistra (ovviamente il Pd) ha con se solo tre liste che sono riuscite a superare il 2% e in media ha raccolto 5,5 volte i loro voti.

Lo squilibrio è evidente. A una coalizione di liste più o meno comparabili a destra, corrisponde dall’altra parte una forza grande circondata da alcune forze piccole. Un albero con attorno un po’ di cespugli: l’espressione è proprio quella che non piace a Conte ma sono i numeri a suggerirla. Naturalmente non per tutti l’esito è uguale: il 6,2% con cui Alleanza verdi sinistra conferma il buon risultato delle europee è tutta altra cosa del 4,6% che segna il tracollo de i 5 Stelle.

La campana della sconfitta, quindi, di nuovo, suona soprattutto per il Pd di Schlein. Che non ha alternative al farsi carico della sua coalizione. Cominciare a costruirla sul serio, governare le più che normali differenze di linea, trovare un punto di incontro. Fare insomma politica. Senza trascinare all’infinito i problemi, fingere di non vedere gli scogli e poi decidere alla fine sulla spinta dell’ultima emozione o dell’ultimo strillo più forte. O meglio, un’alternativa in realtà c’è. Quella di continuare a perdere anche di fronte a una destra che dà pessima prova di sé. In Liguria come a Roma.

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