Editoriale

Sui Cie Minniti sbaglia. Pensi alle falle dell’intelligence

Sui Cie Minniti sbaglia. Pensi alle falle dell’intelligence

Migranti Il Ministro dell’interno, Marco Minniti, che è persona intelligente e tutt’altro che sprovveduta, già ha dovuto ridimensionare l’annuncio sfuggitogli, nonostante l’accortezza che connota il suo stile pubblico. Il proposito di […]

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 6 gennaio 2017

Il Ministro dell’interno, Marco Minniti, che è persona intelligente e tutt’altro che sprovveduta, già ha dovuto ridimensionare l’annuncio sfuggitogli, nonostante l’accortezza che connota il suo stile pubblico. Il proposito di istituire «un Cie in ogni Regione» ha avuto vita breve, appena una manciata di ore, ed è sembrato rispondere più all’intento di sedare ansie diffuse che a quello di realizzare una strategia razionale. Per una serie di ragioni rivelatesi, alla luce dalla storia pregressa dei Cie (dal 1998 a oggi), inconfutabili.

In estrema sintesi, i Cie rappresentano un autentico fallimento. Prendete quella sigla: l’acronimo richiama due funzioni – identificazione ed espulsione – che costituiscono lo statuto giuridico dei Cie e la loro sola finalità normativa.

Nel tempo trascorso dall’approvazione della legge n. 40 del 1998, l’identificazione ha riguardato solo una quota minoritaria degli stranieri trattenuti in questi centri: e il dato stride con quella percentuale di oltre il 94% di identificati, grazie a procedure e a strutture diverse da quelle dei Cie, tra le persone sbarcate in Italia nel 2016. Insomma, in base a quanto appena detto, la funzione istituzionale dei Cie risulta residuale se non praticamente esaurita.

Per quanto riguarda le espulsioni, la vicenda di Anis Amri, l’attentatore di Berlino, è la dimostrazione più limpida, e allo stesso tempo drammatica, di come tutte le misure di cui in questi giorni si è discusso con tanta foga siano approssimative, anche quando utili; e ancora più spesso sgangherate, quando si affidano a messaggi emotivi, destinati a blandire le pulsioni più oscure della società. Anis Amri trascorre quattro anni in un carcere italiano e viene poi trattenuto nel Cie di Caltanissetta, dove viene avviata la pratica di espulsione. Ma accade che le autorità consolari della Tunisia, che pure ha sottoscritto un accordo per la riammissione, si rifiutano di riconoscere Amri come connazionale.

Di conseguenza, il provvedimento di espulsione risulta ineseguibile e Amri, che ha espiato la sua pena, torna libero. Ma il futuro esecutore della strage di Berlino è persona identificata, riconosciuta, fotosegnalata, della quale sono state rilevate le impronte digitali e il cui curriculum criminale e giudiziario, sociale e persino politico (si ipotizza una possibile radicalizzazione) è stato regolarmente depositato nella banca dati europea. Quella banca dati a cui accedono le forze di intelligence e di polizia dei diversi paesi dell’Unione. Nonostante ciò, Amri non solo può organizzare e realizzare il suo progetto terroristico, ma può attraversare tre (forse quattro) paesi europei prima di trovare la morte a Sesto San Giovanni.

Se ne ricava che anche provvedimenti opportuni, come gli accordi con le nazioni extraeuropee, non offrono soluzioni miracolistiche: perché si tratta di paesi profondamente instabili, o lacerati da guerre civili, o soggetti a regimi totalitari; e perché, infine, quegli stessi paesi non hanno alcun interesse a riammettere connazionali che potrebbero rappresentare una minaccia per l’ordine interno.

La fragilità di tutte le soluzioni prospettate significa forse che non vi siano vie d’uscita e che sia fatale arrendersi? Assolutamente no: ancora una volta, è la vicenda di Amri che segnala in maniera inconfutabile come la debolezza delle strategie antiterroristiche risieda nell’impreparazione e nell’inefficienza degli apparati di intelligence e delle forze di polizia; e innanzitutto nel disastroso deficit di comunicazione e cooperazione a livello europeo. Come è potuto accadere, infatti, che il responsabile di una strage atroce, pur se da tempo conosciuto, identificato e segnalato, non sia stato intercettato e fermato? E se fosse vero, come pure credo, che non tutto – e non tutte le insidie, e non tutti i terroristi potenziali – può essere previsto e prevenuto, resta indiscutibile che è lì, esattamente lì, che si deve intervenire, concentrare le energie, focalizzare l’attenzione e le forze.

Dunque, circoscrivere e selezionare gli obiettivi veri, quelli che possono costituire una minaccia reale. E, invece, si fa l’esatto contrario: nel momento in cui si definiscono clandestini tutti gli irregolari, e si trattano tutti gli irregolari come clandestini e terroristi, e su questo meccanismo di sospetto si organizzano le politiche del controllo e della repressione, si ottengono due risultati analogamente perversi. Si finisce col trascurare i nemici veri e si trasformano in nemici coloro che nemici non sono affatto.
Se definiamo e trattiamo come clandestini tutti gli irregolari – per esempio, la gran massa di quanti sono impiegati in nero in agricoltura o nell’edilizia – si avrà un effetto sicuro: spingeremo verso l’illegalità criminale proprio coloro che vogliono emergere alla legalità della regolarizzazione.

Ancora una volta, dunque, si dimostra come solo politiche sociali intelligenti rappresentino il contesto indispensabile per contrastare i fenomeni criminali.

Infine, il ministro dell’Interno ha detto: «I Cie non avranno nulla a che fare con il passato». Voglio considerarla una condanna inappellabile per ciò che sono stati e sono oggi i Cie: strutture orribili, dove vengono violati costantemente i diritti fondamentali della persona. Un non luogo precipitato nel non tempo.

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