I dati del Digital Economy and Society Index (Desi 2020) sono impietosi. Secondo lo studio della Commissione europea l’Italia è al quart’ultimo posto nel continente per tasso di digitalizzazione. La recente esperienza della pandemia ci ha disvelato non solo le magre statistiche, bensì la grama vita vissuta di un paese per molti versi arretrato.

Molte ragazze e ragazzi non hanno il computer per l’educazione a distanza, come si è tristemente constatato. Uno dei motivi delle difficoltà sta nella mancanza di una adeguata rete di diffusione della banda larga e ultralarga: una rete unica interna alla sfera pubblica. Un compito di tale delicatezza, che ha a che fare con il tessuto nervoso della società, non può dipendere dalla mera competizione di mercato e dalle logiche della concorrenza. Attualmente convivono diverse reti, ma la contesa è «duopolistica».

Si incontrano e si scontrano Tim-Telecom e Open Fiber, quest’ultima (così voluta dall’allora premier Matteo Renzi) vincitrice dei recenti bandi di gara di Infratel (la società del ministero dello sviluppo) per coprire le cosiddette «aree bianche», vale a dire i territori di più difficile connessione. A quanto sembra, i risultati ottenuti dal gruppo di Enel e Cassa depositi e prestiti non sono in linea con le previsioni.

Al di là dei debiti dell’ex monopolista e delle difficoltà dell’incumbent fors’ però, si è già in un’altra fase: dove domina la tecnologia (pericolosa per la salute?) del 5G. E mentre preme l’accelerazione impressa alla e dalla transizione digitale, uno dei punti qualificanti del Recovery Fund. Digital first è lo slogan preferito dell’epoca, non a caso. Ecco perché, allora, sulla costruzione di una forte e capillare rete unica non si può tergiversare. E non è (solo) una questione di pur comprensibili equilibri societari.

Siamo di fronte ad un passaggio chiave, in cui – tra l’altro – potrebbe trovare nuova linfa anche il servizio pubblico radiotelevisivo, conferendo la struttura degli impianti RaiWay. È augurabile che i vari decisori chiudano la partita, a cominciare da Tim-Telecom, che ha tenuto ieri il suo consiglio di amministrazione, ma limitandosi a vagliare l’opzione dell’entrata in scena del Fondo statunitense privato Kkr.

Parliamo di Tim-Telecom innanzitutto, in quanto lo stato italiano, dopo la politica dissipativa che ha condizionato la peggiore delle privatizzazioni, ha l’obbligo di rilanciare la vecchia azienda.

Non si può immaginare una rete pubblica imperniata solo sulla specifica newco di casa Telecom , ma un ruolo significativo va svolto dall’apparato che ha costruito la prima intelligenza connettiva italiana. Che Cassa depositi e prestiti svolga compiutamente la sua missione, ora salomonicamente suddivisa a metà tra i due contendenti.

Ri-nazionalizzare la struttura portante (non i servizi, ovviamente) delle telecomunicazioni? E perché no? Meglio farlo dalla via maestra, piuttosto che attraverso l’Enel. Un po’ d’ordine democratico in simile confusa vicenda ci vorrebbe proprio. Naturalmente, se arrivano i fondi americani è doveroso ricorrere allo strumento di garanzia del Golden power. Tuttavia, se la quota destinata al digitale dei fondi europei non si investe sulla rete pubblica, che senso ha ipotizzare scenari futuribili senza avere le basi di partenza?

Insomma, i soggetti interessati, dal governo alle aziende interessate, programmino una strategia adeguata. Non è una partito di Risiko.
Una rete pubblica deve essere «neutra», aperta e attenta ai bisogni comunicativi di una società in profondo mutamento. Una rete che attraversi tutti i media con lo spirito pubblico: indipendenza, pluralismo, qualità. E con il coinvolgimento della miriade di operatori locali, che rappresentano il volto migliore della liberalizzazione del settore.

Intendiamoci. Scriviamo di rete di telecomunicazioni, ma a ben vedere la compagnia di giro, da Vivendi e Mediaset in poi, è sempre quella, come nelle serie televisive. Quindi, serve una scossa generale. Infine, la rete pubblica è la vera linea di un contrasto dinamico della cavalcata degli Over The Top. E sì, e stesse opportunità di Google e compagni possono essere offerte dalla sfera pubblica. Dallo Stato innovatore, con modelli e algoritmi trasparenti.