Editoriale

A scuola dall’antipolitica

A scuola dall’antipoliticaEmmanuel Macron – LaPresse

Francia-Italia Se elezioni francesi hanno consentito un brillante successo ai populisti (un votante su quattro), la vittoria degli antipolitici è stata strepitosa. Sommando gli elettori di Le Pen, Macron e Mélenchon si tratta di tre votanti su quattro. Una Waterloo per i partiti tradizionali

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 27 aprile 2017

Le elezioni francesi invitano a distinguere. Una cosa è il populismo, un’altra l’antipolitica. Ringalluzzito, ove ve ne fosse bisogno dalla vittoria di Trump, e in via di riconversione al sovranismo, il populismo è quell’indigesto miscuglio di xenofobia e nazionalismo professato da Mme Le Pen.
Come i suoi antecedenti fascisti, ha vocazione interclassista. Promette protezione, che ovviamente non manterrà, come sta già dimostrando il succitato Trump. Il suo seguito elettorale è costituto dalle classi medie indipendenti e da quelli che in Francia chiamano i petits blancs, i declassati, i perdenti della globalizzazione, che sperano in qualche forma di protezione nazionalista. Alcuni tra costoro sono d’estrazione popolare: quei ceti da tempo abbandonati dai partiti di sinistra. I dati mostrano pure un’inquietante capacità di penetrazione anche presso l’elettorato giovanile. Il degrado delle istituzioni scolastiche, la loro vistosa delegittimazione, la revoca dell’azione educativa dei partiti, le deprimenti prospettive offerte dal mercato del lavoro, sono un humus fertilissimo per la propaganda populista.

Il raggio dell’antipolitica è più lungo. Tutti i populisti-sovranisti sono antipolitici. Spregiano la politica democratica e il suo apparato di regole e di diritti. Ma non tutti gli antipolitici sono populisti. Molti antipolitici sono anti-establishment, sono contro i partiti convenzionali, sono magari contro le istituzioni europee, talvolta sono oltre la destra e la sinistra, ma non disdegnano le istituzioni democratiche. Grosso modo: i tecnocrati alla Macron tendono a bypassarle, gli antipolitici di sinistra vorrebbero accrescere le opportunità di partecipazione popolare.

Se elezioni francesi hanno consentito un brillante successo ai populisti (un votante su quattro), la vittoria degli antipolitici è stata strepitosa. Sommando gli elettori di Le Pen, Macron e Mélenchon si tratta di tre votanti su quattro. Una Waterloo per i partiti tradizionali e la prova provata di quanto siano odiosi. Piccole cittadelle del privilegio, che curano i loro affari e ossequienti all’establishment, alla faccia dei cittadini.

Il problema è che se i populisti antipolitici sono democraticamente indigeribili, gli altri antipolitici sono strutturalmente inconsistenti. Anche la più democratica delle antipolitiche è invertebrata. Vincerà le elezioni, ma non reggerà alla prova del governo. Ne sa qualcosa Barak Obama, che, dopo aver vinto le elezioni con un discorso (moderatamente) antipolitico, ha dovuto sottomettersi all’establishment, che ha in gran parte neutralizzato il suo potenziale innovativo. Non avendo alle sue spalle né i sindacati, né le grandi associazioni che avevano sorretto i grandi presidenti democratici, è rimasto molto al di sotto delle attese che aveva suscitato. Ha semmai capito la lezione (a modo suo) Matteo Renzi. Il quale, giunto alla leadership e al governo con un discorso sfrontatamente antipolitico, si è subito impossessato del Pd e si è lanciato in una forsennata campagna di conquista del sottogoverno. Sprovveduto però della sottile sapienza democristiana, ha fatto solo volgare demagogia elettorale e ha smarrito la sua carica antipolitica. Resta l’enfant, è svanito il prodige. Berlusconi lo aspetta a braccia aperte.

È possibile che Macron, quasi sicuro vincitore al secondo turno, se la cavi meglio. Ma c’è da nutrire molti dubbi. Senza una solida struttura che connetta Stato e società, che convogli stabilmente consenso verso chi governa, è probabile che anche lui finisca tra le grinfie del business, donde del resto proviene. È un paradosso: per salvare la democrazia la si consegna a chi l’ha inguaiata e tutti si dicono contenti.
Non sarebbe tuttavia andata meglio a Mélenchon, che anche lui non dispone di un partito, ma solo di un embrione di movimento.
E nemmeno a Mme Le Pen. Sono tempi difficili per i politici, anche quelli antipolitici e populisti.

Mentre sono tempi felici per il business, che, grazie alla potenza di fuoco mediatica che può mobilitare, e alla complice insipienza di chi avrebbe dovuto contrastarlo, ha promosso l’antipolitica, la società civile, la trasparenza, la moralità (da che pulpito…) e tante altre cose, fiaccando la politica e profittandone.

Come finirà? Difficile dirlo. Consoliamoci con il fatto che la sinistra francese, tra antipolitica e politica, ha ottenuto un voto su quattro. Non è male, stante la propaganda neoliberale, che, frammischiata all’antipolitica, martella da quarant’anni. Ovviamente, la speranza è che il risultato si consolidi. Che un bel po’ di serio, duro e anche intelligente lavoro trasformi la generosa manifestazione di dissenso in resistenza. Se possibile liberata dalle deliranti suggestioni maggioritarie (da produrre mediante alchimie elettorali) e consapevole che i voti non solo si contano, ma soprattutto si pesano. In Italia, in tempi meno bui, c’era una sinistra pesantissima, che incuteva rispetto. Anche se non andava al governo, contava moltissimo nei destini del paese. E per il meglio.

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