Addio a Lea Pericoli, il tennis senza stereotipi
Quando scompare una celebre atleta del passato, è sempre difficile rielaborarne la storia con gli occhi del presente. A maggior ragione se le gesta non occupano più il nostro immaginario. Vi sono delle cesure temporali che impediscono una vera e propria ricostruzione. Ieri, all’età di 89 anni, è morta Lea Pericoli, tennista che iniziò la sua carriera nei primi anni Cinquanta, quando la Wta era ben lontana dall’esistere, di sponsor e contratti televisivi non se ne parlava affatto e, certamente, di soldi nelle competizioni ne circolavano davvero pochi.
Nata a Milano nel 1935, cresciuta tra Addis Abeba, dove il padre decise di trasferirsi dopo la guerra coloniale in Etiopia, e Nairobi, dove studiò, a diciassette anni fece ritorno in Italia. Subito i primi tornei juniores e poi tante vittorie a livello nazionale, discreti risultati nei tornei più importanti, sia in singolare sia in doppio.
Ero una buona giocatrice, non una campionessa. Sono stata fra le prime 16 del mondo. Ho battuto cinque vincitrici di Slam, tre volte negli ottavi a Wimbledon, quattro al Roland Garros
NELLE PAROLE di chi oggi la ricorda, però, non si fa particolare menzione della tecnica, del dritto e del rovescio, della tenuta fisica e delle strategie, nemmeno delle eccellenti partite disputate a Roland Garros e Wimbledon, a Monte Carlo e a Roma. Si dovrebbe compiere un notevole sforzo di memoria in un contesto dove oramai l’esistenza (vera e falsa) trova la sua certificazione nelle immagini della Rete, negli highlight e nei reel.
Di quel periodo, durato comunque più di vent’anni, restano brevi spezzoni in bianco e nero che spesso raccontano altro. L’eleganza (noto è il suo primato della minigonna indossata per giocare), la capacità di sovvertire gli stereotipi, l’aderenza a un’epoca pop. In un certo senso, nell’archivio, la persona è sopravvissuta alla sportiva e al suo essere l’incontrastata numero uno del tennis italiano. E dunque, le traiettorie esistenziali l’hanno condotta altrove. L’agonismo era una piccola parte del tutto. Lo sport esercitava una forza centrifuga verso il mondo. Mental coach, dietologi, psicologi, manager, addetti stampa sono arrivati dopo. Come l’ossessione per movimenti che hanno senso solo all’interno di un terreno a forma di rettangolo diviso in due da una rete. Impossibile costruire un ponte che colleghi due universi così distanti tra loro per esperienze e attitudini.
A RIDOSSO del ritiro avvenuto nel 1974 a quasi quarant’anni, Pericoli si è riscoperta scrittrice e voce televisiva e radiofonica che commentava uno sport (almeno in Italia) declinato inesorabilmente al maschile. Giornalista competente dedita all’intrattenimento, ha rivelato a quelli che poi sarebbero diventati i suoi eredi che si poteva tenere in mano, senza timore, una racchetta o un microfono con gli stessi eccellenti risultati. Le sue cronache per Telemontecarlo si facevano decisamente preferire a quelle di Guido Oddo e Gian Piero Galeazzi, in un periodo nel quale, peraltro, la Rai poteva interrompere la visione di un match sul 4-4 del quinto set.
Oggi non possiamo dire che Francesca Schiavone e Flavia Pennetta, le vincitrici italiane di Slam, siano le dirette eredi di Pericoli. Certamente lo sono Barbara Rossi, Laura Golarsa, Raffaella Reggi, Laura Garrone solo per citare alcuni nomi di chi con le parole sul tennis ne ha fatto un’amabile professione. E per uscire dall’importante questione di genere (trovate un altro sport nel quale la presenza delle donne sia così rilevante per qualità e quantità), un debito di riconoscenza lo hanno molti atleti (non esclusivamente tennisti) che con sono passati dal campo alla cabina. I nostalgici di Rino Tommasi e Gianni Clerici (che la soprannominò «La Divina») dovrebbero ricordare che con loro in principio era Lea Pericoli.
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