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Addio Cruyff, profeta elettrico

Addio Cruyff, profeta elettrico

Sport Se ne va a 68 anni l’alfiere del calcio totale che ha rivoluzionato nei ’70 il mondo del pallone. Fantasia, velocità, controllo, uomo squadra nell’Ajax e con la maglia della nazionale olandese, poi nel Barcellona. Uno stile sovversivo e provocatorio anche fuori dal campo e che lo farà schierare con gli oppositori di Franco

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 25 marzo 2016

Il Profeta del gol è scomparso. Ma la traccia della sua rivoluzione arancione non conoscerà fine. Da ora di pranzo di ieri è un flusso di ricordi, immagini, commenti sulla morte di Johan Cruyff, battuto a 68 anni da un cancro ai polmoni annunciato dallo stesso ex fuoriclasse olandese lo scorso ottobre, con un comunicato ufficiale. Cruyff è morto a Barcellona, la sua città adottiva, il teatro itinerante delle sue rappresentazioni calcistiche, arte in campo e in panchina.

Era il «magrolino elettrico» per Edoardo Galeano. Il simbolo, il capitano con il 14 sulle spalle ( forse perché a 14 anni vinceva il primo trofeo con l’Ajax) rimasto il suo numero nell’iconografia del pallone, una rivoluzione nell’epoca dall’1 all’11, all’Ajax e nella Nazionale olandese, che hanno scritto un nuovo capitolo del calcio. Un calcio mai visto, neppure pensato prima, che regala a Cruyff un posto al tavolo dei più grandi di sempre più dei trofei vinti in carriera, tre Palloni d’Oro, nove titoli nazionali olandesi, uno con il Barcellona, oltre ai successi sulla panchina blaugrana, dove pure ha rimediato anche qualche batosta storica.

Il nome è associato all’idea del pallone totale, veloce, collettivo, di sinistra, calciatori intercambiabili di classe e polmoni, la prima assoluta del fuorigioco e il ritmo in campo che Arrigo Sacchi, grande cultore della lezione olandese, definirebbe intenso. Cruyff, la modernità, ora attaccante, ora rifinitore, poi ala, ora centrocampista box to box, leggero, sottile, l’inattesa medicina per gli esteti del pallone. Il primo falso nueve del calcio mondiale, 25 anni prima della nouvelle vague di Pep Guardiola al Barcellona.
Pareva fosse sbarcato da Marte, ripescato dai marziani nello stesso anno di Ziggy Stardust, assieme ai vari Rep, Neskens, Haan, Krol, gli altri pezzi dell’Olanda di Rinus Michels che collezionava spettatori allo stadio e in tv, avversari compresi, macinati a suon di bellezza sino alla finale dei Mondiali 1974, la prima edizione dell’era moderna, battuta dai tedeschi e all’edizione successiva in Argentina, con Johan assente, contro il regime di Videla. Gli orange mai vincitori in una competizione internazionale. L’Ajax di Cruyff invece aveva vinto tre Coppe Campioni in fila prima dei Mondiali. E ne avrebbe sollevate altre cinque se la squadra non avesse perduto pezzi ogni stagione.

Perché andavano il doppio, semplicemente. Tutti sapevano fare tutto in campo. E Cruyff decisamente meglio degli altri. Con la sua lingua, il pensiero, sferzante, totale, anarchico, anche arrogante, con la sua personalissima visione del mondo, che andava forte come le sue gambe. Solo una volta è rimasto in silenzio l’olandese, sulla panchina del Barcellona di Romario, Stoichkov, Guardiola che veniva asfaltato dal Milan di Fabio Capello, ventidue anni fa. Quattro a zero per i rossoneri senza Baresi e Costacurta, blaugrana assoluti favoriti che scherzavano prima del via al Camp Nou che non toccavano palla, lui impietrito in panca. Il Barcellona dei record di Pep Guardiola, con il brand del tiki taka, forse assieme al Milan di Arrigo Sacchi la più forte squadra dell’era contemporanea, aveva nel dna il calcio totale di Cruyff, del suo Barcellona degli anni Novanta. Possesso palla, zero concessioni ai calcoli, alle speculazioni, difesa alta (il libero, come nella sua Olanda non era bandito ma semplicemente non concepito), attaccare, deliziare sempre e comunque. E così la squadra rossonera con Sacchi in panchina, il concetto di bellezza, armonia del gioco.

Un manifesto culturale. In Italia è stato il Napoli di Luis Vinicio a portare la zona dell’Ajax, i ritmi indiavolati, il culto del bel gioco. Ma l’allenatore brasiliano non aveva in squadra uno come Cruyff. Ma il plot, il messaggio dell’Olanda di Cruyff è presente anche nel Barcellona di Luis Enrique, nelle giocate di qualità di Messi, Suarez, Neymar, Iniesta. E tutti i talenti che arrivano dalla Masia, la cantera del Barça, crescono bevendo la lezione del calcio di Cruyff. Velocità e controllo, tecnica e bellezza. Era il santone del club catalano, l’oracolo, il club gli aveva affidato l’organizzazione tecnica dalla prima squadra sino alle giovanili. In campo sempre con il 4-3-3, schemi identici per tutte.

Lui visionava dall’alto magistero, presente anche quando assente, con la sua vita in bilico ancor prima del tumore ai polmoni che l’ha portato via. Un’operazione a cuore aperto oltre 20 anni fa, tante sigarette prima e dopo, anche se si mise a palleggiare con un pacchetto di sigarette per una campagna antifumo. «Il calcio consiste essenzialmente in due cose. La prima: quando hai la palla, devi saperla passare correttamente. La seconda: quando ti passano la palla, devi essere capace di controllarla», scriveva Cruyff in un libro scritto con un giornalista catalano. Corsa e controllo, il suo regalo al mondo del calcio.

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