Editoriale

Articolo 18, il vestito antico del rottamatore

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La domanda è piuttosto semplice. Stiamo andando oltre lo Statuto dei lavoratori stilato nei lontani anni ‘70 o stiamo tornando a prima di quell’impianto normativo? Nei rapporti di forze tra […]

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 1 ottobre 2014

La domanda è piuttosto semplice. Stiamo andando oltre lo Statuto dei lavoratori stilato nei lontani anni ‘70 o stiamo tornando a prima di quell’impianto normativo? Nei rapporti di forze tra lavoratori e datori di lavoro sembrano sussistere pochi dubbi: ciò a cui stiamo assistendo è un ritorno all’antico o, quantomeno, alla sua immagine ingannevole e idealizzata: il libero mercato, la legge naturale della domanda e dell’offerta, la concorrenza perfetta, il successo del merito. Che nel corso di più di 40 anni l’ombrello dello Statuto si sia ristretto al punto da lasciare sotto le intemperie una massa sempre più imponente di soggetti è un fatto poco discutibile. Che gli strumenti per aggirarlo e limitarne l’applicazione fino all’insignificanza si siano grandemente moltiplicati e affinati, altrettanto. Ma una cosa è evidente: a imporre le attuali condizioni sul mercato del lavoro non è certo la legislazione che lo riguarda o la politica che pretende di riformarlo o di conservarne i meccanismi dati.

Sono la globalizzazione e le delocalizzazioni, da una parte, e l’automazione, dall’altra, ad avere segnato il destino dei salariati, cui si aggiunge, infine, il crollo dei consumi di massa alimentato dalla Grande depressione.

Dire che il destino dei lavoratori stia nelle mani dei magistrati è una colossale baggianata.

Di conseguenza, l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto nella nostra provincia italiana non determinerà né un aumento né una diminuzione dell’occupazione. La legge e un sistema fiscale vessatorio si sono semmai prodigati nel garantire la debolezza e la ricattabilità delle forme di attività produttive escluse dalle classiche garanzie del lavoro salariato evitando di elaborare nuove forme di tutela o di investire risorse collettive a sostegno del lavoro autonomo, intermittente e precario. Un fenomeno connaturato all’attuale struttura produttiva e non certo conseguenza di un modesto spauracchio come l’articolo 18.

Il disinteresse per questo mondo in costante espansione e la determinazione, di per sé ragionevole, di difendere sempre e comunque le garanzie, sia pure traballanti, di chi ancora le possedeva, si accompagnava alla fede incrollabile nel ritorno della piena occupazione. Senza comprendere che quest’ultima già si dava nella forma perversa che abbiamo sotto gli occhi di una generale “dis-retribuzione” socialmente ed economicamente produttiva, ma a livelli miserabili di reddito e nulli di garanzie.

Se non si trattasse di un “ritorno all’antico” converrebbe chiedere ai riformatori che cosa di nuovo intendano costruire al posto del vecchio Statuto, ma le risposte si annunciano retoriche ed evanescenti. Del resto la trovata degli 80 euro in busta paga (per la limitata platea che la possiede) indica che il governo si muove entro la logica classica del lavoro salariato. Restando nella quale l’abolizione dell’articolo 18 è un obiettivo squisitamente di destra. Diverso sarebbe il discorso se si volesse affrontare davvero la composizione attuale del lavoro vivo (quello che i moderni restauratori preferiscono chiamare “capitale umano”, tanto per imputargli la responsabilità esclusiva della propria bancarotta), ma così non è, neanche lontanamente. Quanto ai capitali (e le capitali) europei, che stupidi non sono, difficilmente si faranno incantare dalla favola degli strabilianti effetti prodotti dall’abolizione dell’articolo 18, in cambio della quale concedere graziosamente più flessibilità nella riscossione delle proprie rendite.

Perché, allora, tanto accanimento intorno a un fortilizio piuttosto sguarnito? Può darsi che il nostro premier, che non brilla certo per modestia, si sia appassionato alla stroria degli “uomini (e donne) illustri”. I controllori di volo negli Stati uniti e i minatori in Gran Bretagna non erano certo rappresentativi della generalità della forza lavoro dell’epoca loro. Eppure Reagan bastonando i primi e Thatcher i secondi, hanno effettivamente impresso una svolta al rapporto tra capitale e lavoro e ai rapporti sociali più in generale.

Quella svolta già c’è stata e configura ancora il nostro presente.

Lo scontro ideologico si è consumato da un pezzo ed è chiaro a tutti quali sono stati i vincitori e quali i vinti. Dalla sinistra si attende ancora invano una risposta a quella controrivoluzione vittoriosa. Senza nostalgia per la cultura della miniera, ma neanche per quella della sua celebrata carnefice. Assistiamo invece alla riproposizione farsesca e fuori tempo massimo di quel memorabile scontro. Come i cultori rinascimentali dell’antico il nostro “innovatore” si sentirà come un “nano sulle spalle di giganti”.

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