Articolo 18, un valore per tutti
L’articolo 18 della legge 300/1970 è stato considerato per molti anni come il simbolo della giustizia sociale, in fabbrica e fuori. «Il capo guadagna 10 o 100 volte più di […]
L’articolo 18 della legge 300/1970 è stato considerato per molti anni come il simbolo della giustizia sociale, in fabbrica e fuori. «Il capo guadagna 10 o 100 volte più di […]
L’articolo 18 della legge 300/1970 è stato considerato per molti anni come il simbolo della giustizia sociale, in fabbrica e fuori. «Il capo guadagna 10 o 100 volte più di me, può fare gli orari e le vacanze che vuole, assumere chi gli sta a cuore, però una volta che io sono lì, al lavoro, non può mandarmi via. Il posto di lavoro è anche mio. C’è un giudice (a Berlino) che, nel caso, me lo darà indietro».
La giustizia sociale così espressa – lo abbiamo detto e ripetuto – era fatta propria da tutti i lavoratori dipendenti, del settore pubblico e di quello privato, dai lavoratori autonomi e dai senza lavoro. I dipendenti pubblici come gli insegnanti, compresi le giovani maestre precarie, oppure scrittori e avvocati parteciparono alla grande manifestazione del Circo Massimo il 23 marzo 2002, fatta dalla Cgil di Sergio Cofferati, senza badare al fatto che l’articolo in questione non li riguardava. Era una cosa giusta, per tutti, era indivisibile come la giustizia. Era un valore per tutti; si doveva impedire che fosse cancellato o stravolto.
È ben noto che gli avversari dell’articolo 18, più o meno nello stesso periodo, si erano avvolti nel mantello della libertà. «La fabbrica è mia e quel certo sindacalista non lo sopporto proprio. Fa perfino del sabotaggio» Non erano solo Marchionne e i suoi precursori a pensarla così. Non pochi pensavano che la libertà di licenziare fosse una delle libertà democratiche prescritte dfa un qualche emendamento della Costituzione del Capitale. Il Capitale era tirato per i capelli in questa discussione. Si argomentava che nessuno avrebbe rischiato investimenti in Italia alla presenza di questo abominio oltretutto protetto da un’alleanza incestuosa tra giudici e operai. Si fecero perfino dei partiti politici nuovi – o rivoltati come una vecchia giacca – per sostenere politicamente questi valori.
I testi che pubblichiamo in questo speciale mettono però in luce lo scarto tra pensiero economico e ideologia padronale. Per mostrare buona volontà l’estrema sinistra di cui essi si servono è John Maynard Keynes, lasciando da parte altri autori più risoluti che forse avrebbero causato qualche tempesta ideologica.
Altre leggi hanno modificato la legge 300 che a sua volta (in particolare l’articolo 18) era il completamento della legge 604 del 16 luglio 1966. I lavoratori dipendenti con contratto a tempo indeterminato si sono nel frattempo ridotti di numero e in una vera trattativa sindacale sarebbe stato possibile trovare un compromesso accettabile tra eguaglianza e libertà, tenendo conto del valore simbolico e del rapporto di forze. Forse si sarebbe potuto seguire una via difficile e operosa: prima discutere di tutto il resto e poi della eventuale riscrittura di questo o di quell’articolo di legge. Ecco però che viene di nuovo fatto saltare tutto. Una parte della Confindustria, spalleggiata da personaggi della politica e dell’accademia, con nomi che è inutile o dannoso ripetere, vuole stravincere, vuole l’umiliazione di chi la pensa diversamente, di chi crede davvero che gli uomini siano uguali tra loro.
Matteo Renzi, pover’uomo, mancando di un’idea personale, si accoda. Ripete quello che gli hanno detto. Attacca i sostenitori dell’art.18 come fautori dell’apartheid tra lavoratori di serie A e di serie B. Si fa rispondere da Stefano Fassina che, senza difese sindacali e politiche, finiranno tutti in serie C.
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