Editoriale

Barack Obama, la fragilità del filosofo-re

Barack Obama, la fragilità del filosofo-reBarack Obama

Dopo le elezioni del midterm Obama ha deciso di mandare 1500 ‘istruttori’ in Iraq ed è andato in Cina per l’Apec. Sin troppe parole sono state spese sulla sconfitta elettorale […]

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 12 novembre 2014

Dopo le elezioni del midterm Obama ha deciso di mandare 1500 ‘istruttori’ in Iraq ed è andato in Cina per l’Apec. Sin troppe parole sono state spese sulla sconfitta elettorale e ben poche sul suo esperimento che mirava a cambiare il paese sulla base dell’etica razionale e del volontarismo culturale. Vale a dire far fronte agli ostacoli spiegando come doverli superare per l’interesse generale. L’illuminismo utopico del settecento europeo al servizio dell’America del XXI secolo.

Un paradosso nemmeno ipotizzabile. Eppure in gran misura ha ispirato l’approccio di Obama nella sua politica progetto. Una politica che si fondava sul voto entusiasta di studenti, neri, ispanici, un po’ di green economy, gran nomi dell’information technology, attori di Hollywood e sugli intellettuali liberal. E dunque una politica senza sponde di potere. Senza il suo partito che in buona parte preferiva Hillary Clinton, e senza lobby di peso, disposte a dare per poi avere. Senza la Corte suprema, senza gli sceriffi, i giudici, i governatori bianchi, semplicemente smarriti nel vedere alla Casa Bianca un nero fare il presidente anzichè il maggiordomo. E per di più un nero persuaso di essere in grado di governare «ragionando» con gli avversari, di essere così intelligente e colto da capire le loro opzioni ma di poterli convincere a scegliere le sue, sempre per il bene del paese. Insomma un filosofo-re nel paese più alieno ai filosofi e che dai re si aspetta prove di forza. Non a caso nella terminologia ufficiale il presidente è definito il ‘comandante in capo’, una definizione di una ipocrisia tutta americo-protestante.

Il presidente degli Stati Uniti governa se il suo partito ha la maggioranza al Congresso e al Senato ma governa secondo politiche su cui è stato raggiunto l’accordo tra i potenti che contano in ambedue i partiti e dunque non con gli studenti, i neri, gli ispanici e gli intellettuali liberal, bensì con gli uomini dell’economia nel paese in cui da sempre l’economia è al posto di comando.

Negli ultimi trent’anni è in corso la sfida per l’egemonia tra il capitalismo finanziario e il capitalismo produttivo. Nel 2008 mentre montava la crisi, le élite finanziarie hanno puntato su Obama e tramite il loro rappresentante Tim Geithner, divenuto ministro del Tesoro, hanno ottenenuto quello che volevano. Poi nel 2010 dalla Casa Bianca è arrivata la provocazione: una legge per regolamentare (almeno un po’) la finanza. Quella legge ha moltiplicato le difficoltà di Obama che al Senato e al Congresso e nei mass media è quotidianamente delegittimato.

La sua politica progetto ha mostrato la fragilità della politica quando non è sorretta dal potere. La verità è che l’indifferenza di Obama per il rapporto tra politica e potere, la sua ostinazione nel puntare a convincere con la ragione e non a contrattare con gli avversari, ha avuto conseguenze rovinose. Al di là delle sconfitte nelle politiche sociali, dalla modestissima riforma sanitaria all’aumento del salario minimo, al dramma dell’immigrazione, e al di là delle aspettative deluse dei suoi elettori, dalla mancata chiusura di Guantanamo al mantenere operative le leggi di George W. Bush sul controllo da grande fratello, la conseguenza più rovinosa è la fine della speranza nel cambiamento.

Speranza e cambiamento sono state le parole usate da Obama nella sua prima campagna elettorale, per attrarre a sé gli ultimi della terra del suo paese. E vi riuscì, poi a Washington si imbattè nei primi della terra cui non serviva alcun cambiamento e le loro speranze avevano a che vedere con i propri successi nella concorrenza con la Cina e persino con l’Europa. Non avevano interesse per i diritti delle minoranze e per le politiche sociali, mai l’avevano avuto i loro padri e antenati, e dunque la reazione naturale alle perorazioni inusuali dell’inquilino della Casa Bianca, così alieno alle architravi culturali dell’America, è stato di rifiutare lui nel suo ruolo. Di rinnegarlo come comandante in capo. Di sconfiggerlo alle elezioni e di opporglisi il più possibile nel tempo che gli rimane. Dal loro punto di vista hanno tutte le ragioni.

Il paese è così dal 1787, diviso tra chi ha il diritto/dovere di esercitare il potere e chi di rispettare le regole del potere. E la prima delle regole è che il potere non si cambia. Anche se per un incidente di percorso e per le maglie troppo larghe al diritto di voto, arriva alla Casa Bianca un alieno che del paese conosce solo chi obbedisce alle regole e non chi le fa, e per questo si autoconvince di poter cambiare le regole. E addirittura di poterle cambiare usando la ragione e l’etica, e non la forza e l’interesse. Questo in politica interna, per quella estera vale come esempio la recentissima lettera ‘segreta’ al gran teocrate dell’Iran, anche lui da convincere per il bene del mondo intero.

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