Editoriale

Bergoglio, che la memoria sia lunga a Sarajevo

Bergoglio, che la memoria sia lunga a SarajevoUna casa serba abbandonata a Sarajevo – Mario Boccia

Il papa in Bosnia Erzegovina Viaggio nel precipizio balcanico, passato e futuro dell’Europa. Dove il regolamento di conti scattò anche per responsabilità di Wojtyla

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 6 giugno 2015

Papa Bergoglio oggi sarà in visita a Sarajevo, capitale di un Paese, la Bosnia Erzegovina, che resta ancora diviso dopo la guerra che l’ha dilaniato dal 1992 al 1995. Da una parte c’è la Federazione croato-musulmana unita solo sulla carta, nel rispetto della “pace di carta” di Dayton del novembre-dicembre ’95, perché sempre in preda alle istanze nazionaliste croate che puntano a una Herceg Bosna, patria dei croati di Bosnia da annettere alla Croazia, e dall’altra parte c’è la Repubblica serba di Bosnia. Gli organismi unitari dello “stato” esistono anch’essi per modo di dire. La pace è sempre vigilata dalla Nato e dall’Onu. La società è unificata solo dalla disoccupazione e dalla miseria, con frequenti e diffuse proteste dei lavoratori, mentre le mafie di ogni etnia hanno fatto fortuna con la guerra e alle leadership politiche affluisce un mare di denaro degli organismi internazionali.

Qui il papa gesuita che punta a rifondare la Chiesa, e che ha vissuto il dramma sanguinoso dell’Argentina degli anni Settanta esploso dentro e attraverso le strutture della chiesa in frantumi con il golpe dei militari in parte auspicato e in parte subìto, sarà il miglior testimone di un conflitto intestino, nel luogo simbolico della guerra fratricida. È bene comunque che la sua e la nostra memoria sia di lunga durata. Solo chi non dimentica le proprie responsabilità può infatti essere credibile e dare speranza. Lì non c’è solo l’immagine originaria dell’inizio del prima conflagrazione mondiale, ma anche della prima nuova guerra etnico-nazionalistica scoppiata anch’essa in Europa. Non un residuo del passato ma, alla luce delle attuali divisioni europeee, avanguardia probabile di una più profonda devastazione, perché quel luogo potrebbe essere non il nostro passato ma il nostro futuro. Qui infatti è stata messa alla prova la novità rappresentata dalla nascita dell’Unione europea, proprio qui è nata utilizzando per la sua crescita abnorme – fino a ridursi oggi a una moneta – proprio la distruzione di un altro preesistente stato federale, quello jugoslavo.

Come definire altrimenti se non un anticipo delle attuali divisioni europee – senza dimenticare gli spettri attuali della vicenda ucraina – il crollo di quella federazione prodotta da una terribile crisi economica a metà degli anni Ottanta? Una crisi che accelerò la rottura del patto federativo jugoslavo proprio di fronte ai costi da pagare della crisi, che le repubbliche più ricche si rifiutarono di accettare facendo a pezzi la solidarietà istituzionale che le vedeva legate alle repubbliche più povere e sul lastrico?

Certo la deriva nazionalista era intrinseca ai limiti della riforma jugoslava di Tito e Kardely del ‘74 che prevedeva il diritto di veto delle varie nazionalità. Ma cosa determinò davvero il precipizio balcanico? Fu l’insorgenza nazionalista interna, fortissima prima politica e poi armata – qui il favoleggiato “democratico ’89” fu solo nazionalista – che venne fortemente sostenuta dalle capitali europee pronte ad accaparrarsi alleati nel Paese che stava per sfasciarsi, per costruire ingerenze e controllo di aree geostrategiche in funzione delle nuove gerarchie del Vecchio continente dopo la caduta del Muro di Berlino e la riunificazione forzata delle due Germanie. E questo nonostante che proprio all’inizio della sua storia, l’Unione europea istituendo la Commissione Badinter avesse deciso, a fronte della fine dell’Urss, che non si dovevano riconoscere «indipendenze proclamate unilateralmente, su base etnica e con la violenza». Accadde esattamente il contrario. Mentre ancora esisteva uno stato unitario, la Federazione jugoslava, con un governo rappresentativo delle varie nazionalità, una sede all’Onu e un presidente eletto che correva nelle sedi internazionali per avere l’appoggio all’unità della Federazione, il Vaticano, subito dopo la rinata Germania, riconobbe nel gennaio 1992 le indipendenze di Slovenia e Croazia, che si erano proclamate nazioni indipendenti sulla base etnica della «slovenicità» e della «croaticità».

Artefice dell’iniziativa irresponsabile fu papa Wojtyla, quello che papa Bergoglio ha proclamato «beato». Perché fu irresponsabile e criminale quella scelta? Perché – con l’avvallo della Chiesa che in Croazia era stata connivente con il regime fascista degli ustascia – innescava subito la resa dei conti con le popolazioni che non erano né slovene né croate ma che vivevano nei confini amministrativi jugoslavi diventati ora nuove frontiere nazionali; e soprattutto perché precipitava sulla Bosnia Erzegovina, la piccola Jugoslavia, dove tutte le nazionalità erano rappresentate e dove tutto infatti esplose.

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Il papa, raccontano le cronache di Sarajevo, celebrerà la messa sedendo su uno scranno prodotto dall’artigiano bosniaco musulmano Salim Hajderovac, che ha lavorato al manufatto (nella foto LaPresse gli ultimi ritocchi, ndr) come gesto di dialogo tra le varie comunità religiose. È un indubbio gesto di amicizia, nell’anno del ventennale della strage di Srebrenica perpetrata dalle milizie serbo-bosniache, il fatto di sangue più grave dalla Seconda guerra mondiale nel sud-est europeo. Tuttavia Bergoglio non dimentichi la fatica necessaria dell’ecumenismo e i suoi fallimenti. In Bosnia Erzegovina le religioni sono perlomeno tre e con tutto il loro peso: la musulmana, l’ortodossa cristiana e il cattolicesimo. Ognuna, durante la guerra, è stata omicida dell’altra e identificata con una piccola patria. Se il principale massacro che viene ricordato è giustamente quello di Srebrenica, non vanno dimenticati i crimini dei musulmani contro i serbi, né quelli dei cattolici croati contro i musulmani e serbi. La guerra a Mostar, la seconda città ancora divisa e contesa della Bosnia Erzegovina,, non è stata meno sanguinosa dello scellerato assedio serbo bosniaco di Sarajevo. È così difficile testimoniare tutto questo che lo stesso Wojtyla, nella sua visita a Sarajevo dell’aprile 1997, fu oggetto di un attentato sventato all’ultimo momento, con uno scontro altrettanto sanguinoso all’interno del governo e dei servizi segreti musulmani, gli stessi che avevano permesso per pareggiare le sorti della guerra contro i più bellicosi serbi, l’ingresso in Bosnia di migliaia di mujaheddin afghani e arabi con tanto di autorizzazione occidentale. Dunque, c’è poco da trionfare. Che la memoria sia lunga.

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