Brexit, il tempo degli sciacalli
Brexit Intanto si comincia a stilare l’inventario del possibile bottino proveniente dal sacco di Londra. Apre le danze Easy jet che, per non rischiare di perdere i diritti di volo comunitari, si è messa alla ricerca di una sede europea dove trasferire la sua base londinese. Virgin e Ryanair potrebbero seguire. Il settimanale tedesco der Spiegel elencava l’altro ieri una succulenta serie di possibili migrazioni finanziarie e imprenditoriali post Brexit
Brexit Intanto si comincia a stilare l’inventario del possibile bottino proveniente dal sacco di Londra. Apre le danze Easy jet che, per non rischiare di perdere i diritti di volo comunitari, si è messa alla ricerca di una sede europea dove trasferire la sua base londinese. Virgin e Ryanair potrebbero seguire. Il settimanale tedesco der Spiegel elencava l’altro ieri una succulenta serie di possibili migrazioni finanziarie e imprenditoriali post Brexit
Londra non si è fatta in un giorno e in un giorno non si smonterà. Neanche in qualche decennio. E, tuttavia, il tempo degli sciacalli ha già visto sorgere la sua alba. Prima ancora di sapere il corso, tutt’altro che lineare, che prenderà l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea e la natura dei futuri rapporti tra Londra e il vecchio continente, gli ex partner già si contendono le presunte spoglie della City.
Con l’eleganza di un branco di lupi e con la serietà di un avanspettacolo. Renzi e Sala non perdono tempo. Già favoleggiano di ravvivare il transatlantico spiaggiato di expo e la spiaggia sepolta di Bagnoli con le schegge prodotte dall’esplosione immaginaria della più grande piazza d’affari d’Europa. Ma, se sono tra i più ridicoli, non sono certo i soli.
Numerosi candidati si fanno avanti con ambizioni ancora più spudorate di soppiantare la City londinese. Gli imbonitori imperversano sulla rete, sulla stampa, nei circoli padronali e perfino nelle cancellerie, promettendo il paese della Cuccagna finanziaria. Dublino offre la lingua, la vicinanza e una solida atmosfera liberista, ma le sue infrastrutture lasciano a desiderare. Francoforte (che ha peraltro il difetto di appartenere alla già troppo potente Germania) consente di prendere il caffè con Mario Draghi e di mettere direttamente il naso negli umori della Bce, ma non basteranno certo le ragazze in vetrina della Kaiserstrasse, in una città che nelle ore notturne tende al deserto, ad allietare la vita dei manager della finanza. Più mortalmente noioso c’è solo il Lussemburgo che vanta, tuttavia, una sperimentata spregiudicatezza nel render la vita facile a capitali e fondi d’investimento, nonché una discreta tradizione gastronomica. Resta l’indubbio fascino della Ville lumière, ma sempre troppo turbolenta e dove il computer continua tenacemente a chiamarsi ordinateur.
Tuttavia, sebbene il glamour abbia il suo peso, è sul terreno fiscale che la competizione si fa più aspra e concreta. Gli sciacalli fanno a gara nell’offrire a banche, imprese, multinazionali e società finanziarie gli sconti fiscali più mirabolanti. A pagare le infrastrutture e le “grandi opere” di cui abbisognano provvederanno comunque i contribuenti. Si rivela in questa frenetica e indecente competizione per la “pelle dell’orso” la vocazione di tutti i paesi dell’Unione a trasformarsi, selettivamente e ufficiosamente, nei tanto deprecati “paradisi fiscali”. In questa materia non ci sono regole comuni o principi condivisi se non quello della competizione senza esclusione di colpi, né preoccupazioni di equità nel blandire poteri fuoriusciti da qualsiasi patto sociale.
Intanto si comincia a stilare l’inventario del possibile bottino proveniente dal sacco di Londra. Apre le danze Easy jet che, per non rischiare di perdere i diritti di volo comunitari, si è messa alla ricerca di una sede europea dove trasferire la sua base londinese. Virgin e Ryanair potrebbero seguire. Il settimanale tedesco der Spiegel elencava l’altro ieri una succulenta serie di possibili migrazioni finanziarie e imprenditoriali post Brexit.
Vodafone ci starebbe seriamente pensando; Goldman Sachs prevede lo spostamento di 6500 posti di lavoro; Lloyds Bank si accingerebbe a chiudere 23 filiali in Gran Bretagna; Morgan Stanley intende dislocare 2000 posti tra Dublino e Francoforte, Visa 1000 posti e il suo centro dati in altro paese europeo; JP Morgan si propone di ricollocare altrove dai 1000 ai 4000 dipendenti; Siemens, Ford e Airbus intendono riesaminare i propri piani di investimento nel Regno unito. Insomma non sarebbe solo il proverbiale “idraulico polacco” a fare le valigie. Quanto di vero o di strumentale ci sia in queste dichiarazioni di intenti non influisce affatto sull’appetito manifesto dei governi europei che stringono ancora in mano i capelli strappati per il dramma della Brexit.
Tutti questi spostamenti, qualora dovessero effettivamente accadere, non inciderebbero granché sui livelli occupazionali dei diversi paesi in lizza per spartirsi il bottino britannico. Qualche migliaio di operatori finanziari non modificano di certo l’economia di un paese e l’atteso “indotto” si rivela in genere poco più di un miraggio. In un banale sistema di vasi comunicanti i posti di lavoro sottratti a un paese si ripresentano, sovente ridotti e meno tutelati, in un altro, dove le condizioni dell’accumulazione appaiono più favorevoli. Che si tratti di colletti bianchi o di colletti blu nulla cambia nella sostanza. E,in linea di principio, non è cosa di cui gioire.
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