Buona la prima, mai sprecare una crisi
Il Partenone appare sullo sfondo, quasi risucchiato dal buio della notte se non fosse per la luce riflessa dello scintillio di un grande fuoco artificiale. E’ la foto di copertina del 2 gennaio 2013, primo giorno in edicola del Nuovo Manifesto, il giornale appena nato dalle ceneri di una Liquidazione amministrativa. In quei giorni ancora non sappiamo cosa ci riserverà l’anno appena iniziato, quali ostacoli, trappole o sorprese troveremo sulla strada che abbiamo scelto di percorrere dopo l’esperienza del trapasso, una morte dolorosa e una resurrezione quasi miracolosa. Quella foto struggente dell’Acropoli è il simbolo della grande crisi globale ormai giunta al quinto anno, una crisi di ristrutturazione dei rapporti sociali nel mondo.
L’Europa si prepara ad un altro anno di recessione, austerità e tagli al welfare. In Italia entra in vigore la riforma che allunga l’età pensionabile e riduce gli ammortizzatori sociali. In quella prima pagina don Gallo scrive della democrazia cancellata, di un futuro governato dai banchieri e ci sprona ad alzare la testa. Ignazio Ramonet analizza la prospettiva geopolitica sotto la lente delle politiche di austerità.
Ma se per il giornale la parola crisi conserva, nell’atto della metamorfosi dalla vecchia alla nuova cooperativa, tutta la forza positiva che l’etimo le assegna, la crisi economica che strozza l’Italia e il sud dell’Europa non ha nulla di progressivo. Quel fuoco artificiale che illumina il cielo di Atene nella nostra prima copertina è come un esorcismo, alla maniera dei botti di fine anno. Un rito scaramantico per scongiurare la crisi di civiltà che insegue il Vecchio Continente dopo aver ferocemente mutilato il paese che quella civiltà ha fondato.
Cari lettrici e cari lettori, care compagne e cari compagni sfogliando questo catalogo di prime pagine potrete leggere e vedere come sono andate le cose negli ultimi dodici mesi, riavvolgere il nastro della fitta sequenza di fatti, personaggi, suggestioni, delusioni che ogni mattina abbiamo portato nelle edicole. Un titolo e una foto per dare voce e corpo a un sentimento politico, per costruire ogni giorno un ponte di carta con chi ci segue da sempre e chi da poco tempo, con intelligenza, partecipazione, severità critica.
Il 2013 è stato un anno di profonda, progressiva decadenza. Nessuna luce è comparsa in fondo al tunnel. Sfumata la possibilità di un governo di alternativa, come il voto di febbraio sembrava aver posto all’ordine del giorno, il nostro paese è finito in una inedita alleanza di governo tra centrodestra e centrosinistra, prigioniero di un patto di potere che dopo vent’anni di berlusconismo, registra la scomparsa della sinistra per come l’abbiamo conosciuta. La lunga transizione è finita nella santa alleanza (benedetta dalla curia ruiniana) di quel che resta del vecchio ceto politico, registrando la conseguenza, inedita, di una forza populista, come in altri paesi europei, ma che solo in Italia sfiora un quarto dell’elettorato. Ai margini del sistema vive un’opposizione sociale priva di una forza federatrice, sintomo di una società nazionale che sembra aver smarrito la speranza che, come dicevano gli antichi, è un sogno fatto da svegli, una spinta al cambiamento, la capacità di immaginare il futuro, una visione. Quel che più ci manca oggi.
Abbiamo riflettuto tante volta sulla naturale della crisi che stiamo attraversando. Culturale ancor prima che politica, capace di fiaccare la qualità della convivenza. Così profonda da essere ormai registrata anche dai sismografi delle statistiche che parlano di una collocazione agli ultimi posti nella classifica europea dei consumi culturali (siamo al 23° posto), con 44 italiani su 100 che non hanno letto un libro, con 70 su 100 che non hanno visitato un museo o una mostra. Un handicap culturale che precede e condiziona la salute politica. Quel che i dati dell’annuale ricerca europea denunciano non è solo indice di ignoranza, povertà, mancato sviluppo, ma anche di una grande depressione psicologica. Ma se, come scriveva Luigi Pintor («La sinistra italiana che conosciamo è morta», aprile 2003) lo scopo della sinistra non è «vincere domani ma operare ogni giorno e invadere il campo», se «lo scopo è reinventare la vita in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste», come il progressivo precipizio culturale testimonia, ci vuole coraggio, molto, grande resistenza e forza di volontà. Noi del manifesto non abbiamo ricette pronte, vogliamo esprimere un punto di vista critico, con passione, disinteresse, ironia. Senza saccenteria. Per continuare ad accogliere su queste pagine tutti quelli che ogni giorno ricominciano, lontani dal potere, un po’ anarchici, un po’ comunità. Sapendo di poter «al massimo esercitare una suggestione», per produrre nel tempo lungo un orientamento politico e sedimentarlo. Un allenamento critico quotidiano da consegnare a chi coltiverà i semi della sinistra, in coerenza con l’ispirazione che gli oltre quarant’anni della nostra storia ci hanno consegnato.
Spesso siamo colpevolmente prevedibili, per un peccato di pigrizia culturale, vittime noi stessi di un luogocomunismo che cerchiamo di correggere ogni giorno. Vorremmo sfuggire alla forbice che sembra spezzare la speranza di una terza via tra un neoriformismo accucciato sotto l’ala del neoliberismo e un radicalismo ideologico incapace di farsi realmente contaminare e contraddire dalla generosità e maturità dei movimenti. E tuttavia dobbiamo riconoscere che qualche consapevolezza in più si sta facendo strada. E’ cresciuto un dibattito nella sinistra diffusa, sono nate proposte, soggetti, organizzazioni. Il nuovo manifesto è stato in qualche modo promotore di un ampio e approfondito confronto sulla natura di una crisi che deve fare i conti con un mix esplosivo di populismo autoritario e democrazia diretta. Sulle macerie di questo “dopoguerra” dovremo essere in grado di mettere in comune qualche altra, buona idea proseguendo la discussione e l’analisi.
Il nostro è un paese difficile per l’informazione (e perché, altrimenti, avremmo avuto come presidente del consiglio un tycoon?), per la stampa (da sempre storica, fedele ancella dei grandi gruppi industriali e finanziari), per il manifesto, un’anomalia assoluta, sia dal punto di vista dell’autonomia politica che da quello del modello d’impresa: una cooperativa di poligrafici e e giornalisti.
Tanti quotidiani sono morti in questo nostro primo anno di vita. Giornali che dipendevano da partiti, da imprenditori truffaldini o da progetti politici improvvisati. Lavoriamo in un campo scivoloso, delicato, crocevia di poteri che si somigliano. Noi non dipendiamo da nessuno e per restare liberi vi chiediamo di abbonarvi, senza aspettare un domani tanto incerto. Siamo una cooperativa appena nata, senza debiti (adesso), ma anche senza un euro in cassa. E soprattutto senza un capitale iniziale. I risultati delle vendite e della pubblicità non bastano a sostenere i costi di un’impresa nazionale. Abbonarsi, sostenere il manifesto significa darci l’ossigeno politico indispensabile, non farlo vuol dire mettere a rischio la vita di questo giornale.
Sostenere il manifesto in questo momento può tradursi nel traguardo più ambito: l’acquisto della testata. Quando i liquidatori, prevedibilmente nei prossimi mesi, la metteranno in vendita dovremmo aver raccolto un milione di euro per poter concorrere al suo acquisto. Abbonarsi e sottoscrivere ha dunque oggi un valore strategico, vuol dire impegnarsi a costruire, insieme a noi, un’impresa editoriale e un’esperienza politica rinnovate che avrà bisogno di un punto di riferimento per la sinistra futura. E c’è bisogno di un giornale libero, aperto, plurale, di discussione e di critica, di confronto e di polemica, qui e ora.
Le condizioni economiche sono determinanti per la fisionomia e la credibilità politica, come abbiamo scritto all’inizio di questo 2013 continueremo a pubblicare il manifesto solo se riusciremo a camminare sulle nostre gambe, organizzando quell’editore collettivo che voi, lettrici e lettori, rappresentate e pretendete. Per tutto questo abbonatevi. Anzi manifestatevi. Mai sprecare una crisi.
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