Editoriale

Chi decide per il decisionista

Chi decide per il decisionistaMatteo Renzi e Sergio Marchionne

Le carte della procura di Firenze sollecitano, per la politica, la domanda più classica. Chi comanda in Italia? È tutto nelle mani del premier che governa con le slide, fa […]

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 18 marzo 2015

Le carte della procura di Firenze sollecitano, per la politica, la domanda più classica. Chi comanda in Italia? È tutto nelle mani del premier che governa con le slide, fa il selfie con chi capita, scrive tweet a ritmo febbrile e interviene su ogni inezia del creato? Se la politica fosse solo comunicazione, Renzi avrebbe già risolto l’enigma del potere. È tutto nella sua stanza di palazzo Chigi, con la lampadina notturna sempre accesa in segno di permanente lavoro sulle scartoffie. Le scolaresche che cantano inni di giubilo in sua presenza sono la conferma dello scettro ritrovato.

Se, oltre la scintillante scena della rappresentazione, si osservano però altre variabili, il quadro del potere si complica. Il governo dei «senza retroterra», come è stato autorevolmente battezzato, ovvero l’esecutivo degli incompetenti, non riesce davvero a recuperare lo spazio della politica in un mondo che scivola sulla richiesta di neutralizzazione dei valori alternativi avanzata dalla tecnica e sull’espropriazione degli ambiti di democrazia ordinati dalle agenzie del capitale e della finanza.
I ministri che ignorano i risvolti delle grandi opere, si perdono nei labirinti dell’amministrazione, e anzi si vantano di aver portato al potere tutta la loro inesperienza, non allarmano perché decidono troppo. Inquietano perché decidono cose che ordinano loro dei poteri che non controllano. E sono proprio queste oscure agenzie, un misto tra pubblico e privato, impresa e grandi commessi di stato, funzionari e lobbisti, che hanno appiccicato i galloni sulle spalle agli statisti della porta accanto e sono pronti a strapparli alla prima occasione.
Renzi si vanta per aver imposto il suo decisionismo veloce. Ed esplicita la sua filosofia delle istituzioni in questi termini, molto semplificati: «Per il governo io ho in testa il modello di una giunta che funziona con un forte potere di indirizzo del sindaco». Se davvero fosse possibile tramutare il presidente del consiglio in sindaco e il governo in una giunta, sarebbe certificata la fine della politica, la sua riduzione ad amministrazione spicciola e l’ingresso in un mondo della favola, senza grandi conflitti sociali. Solo che, anche quando annuncia di avere concentrato tutto il potere in una stanza, Renzi inciampa in un ennesimo annuncio che è, come gli altri, inattendibile.

Nessun osservatore assennato è disposto a riconoscergli competenze reali nell’arte di governo. Improvvisa, esagera, ignora, semplifica, forza. E mostra tutta la sua fragilità nel ruolo di statista, quando dichiara che «vorrebbe Putin nella sua squadra» o celebra un re degli Emirati come «campione della libertà». Nel gioco della simulazione infinita, che è diventata l’opera di governo nell’età leggera del pubblico, il premier narra, si diverte tra telecamere amiche, viaggia servendosi dei simboli del potere e illustra le norme giuridiche con le slide. L’agenda però la scrivono altri. Non solo il governo privato (economisti e imprenditori amici, come l’ex amministratore delegato Guerra), ma la Confindustria, i poteri europei, le burocrazie inossidabili che resistono al mutar dei ministri.
Renzi è velocissimo quando si tratta di dare esecuzione agli ordini dei forti poteri che esigono la precarizzazione del lavoro ed è poi di un imbarazzante immobilismo nelle scelte (evasione fiscale, legge anti corruzione) che colpiscono gli interessi consolidati, i privilegi e le rendite di posizione. Il sociologo Luca Ricolfi ha effettuato sul Sole 24 Ore una radiografia dell’azione di governo certificando nel referto l’impossibile rinascita di una destra liberale. «Renzi – scrive – è già abbastanza di destra da lasciare ben poco spazio a un’opposizione dello stesso tipo».
E, in effetti, tutte le sue rapide scelte (dalla riforma costituzionale, al taglio dell’Irap per le imprese, dalla cancellazione dell’articolo 18 alla responsabilità civile dei giudici, dai tagli alla spesa pubblica al preside manager) sono «abbastanza di destra». Proprio sul solido terreno destrorso delle politiche pubbliche è possibile la nascita del partito unico della nazione che sposa gli interessi di potenze private che dettano i programmi e lasciano che il leader pseudo carismatico occupi la scena della rappresentazione con simulazioni di nuovo, velocità, simpatia.
In parlamento non c’è più una dialettica politica che incrini il dominio della coalizione sociale che ha, quale suprema guida spirituale, la finanza e il grande capitale e, per suo docile esecutore materiale, il governo dei senza retroterra, selezionati perché in rapporti privati con influenti centri di potere. Senza promuovere un’altra coalizione sociale legata al lavoro, l’autonomia della politica sfuma e anzi bisogna cestinarla nel novero delle grandi utopie. Le carte fiorentine svelano la trama affaristica del circolo governo-burocrazie-amministratori-imprese impegnato nel gran ballo dell’opulenza in un tempo di politica al tramonto.

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