Editoriale

Con Bernie torna la politica

Con Bernie torna la politicaBernie Sanders – Reuters - LaPresse

Primarie Usa Alle radici del quasi pareggio alle primarie democratiche in Iowa. Saranno scompaginati i piani clintoniani, specie se il risultato dovesse ripetersi in New Hampshire. Ma il compito del "socialdemocratico" Sanders resta titanico

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 3 febbraio 2016

Yes, Bernie can, si potrebbe commentare così il risultato dei caucus in Iowa di lunedì, riecheggiando il semplice e celebre slogan della prima campagna presidenziale di Barack Obama del 2008: Yes, we can.

In realtà, per capire quel che è successo, sarebbe più appropriato replicare quello slogan proprio come fu formulato allora, perché dietro Bernie Sanders, ancora più che otto anni fa, il we, il noi, è davvero la ragione principale e il motore di questa sua straordinaria affermazione, ancora più significativa perché conseguita di fronte alla poderosa, ricca e sperimentatissima machine clintoniana. Il noi è la grande mobilitazione, soprattutto giovanile, che è dietro il successo di un veterano della politica che, contro i luoghi comuni correnti assurti a leggi inconfutabili, ha condotto e conduce coerentemente e insistentemente una campagna elettorale di sinistra, di una sinistra schietta che per molti aspetti non è più di casa neppure in Europa, neanche in quella di tradizione socialdemocratica a cui pure Sanders si riferisce come modello.

Certo, il messaggio della lotta alle ingiustizie e alle diseguaglianze, della denuncia di una «economia truccata», fa leva e suscita entusiasmo anche perché trova in Sanders un consumato e persuasivo «messaggero». Lunedì sera, la folla dei sostenitori che l’acclamava l’ha salutato con un corale we feel the bern. Andiamo sul dizionario dello slang americano in continuo aggiornamento, l’Urban Dictionary, per tradurre: «Sentiamo il bern», cioè l’illuminazione della logica e dei fatti di Bernie Sanders.
Con Sanders torna la politica, e vanno in fumo tutte le storie messe in giro dell’antipolitica trionfante o, peggio, della confusione alimentata da commentatori ignoranti o in mala fede, anche in Italia, che pongono specularmente sullo stesso piano il messaggio chiaro e, appunto, logico della politica al servizio della giustizia sociale e il populismo demagogico di personaggi inquietanti come Donald Trump che investono miliardi nelle paure e nelle frustrazioni del ceto medio bianco e cavalcano i suoi sentimenti di rivalsa.

L’esito del voto in Iowa rappresenta una political revolution, come ha detto Sanders commentando il «virtuale pareggio» ottenuto lunedì nel duello con Hillary Clinton, duello divenuto davvero tale con la definitiva uscita di scena del terzo candidato democratico, Martin O’Malley. Il senatore socialista e/o socialdemocratico, come egli si definisce, è andato molto vicino alla vittoria, un obiettivo possibile martedì prossimo 9 febbraio in New Hampshire, seconda tappa delle primarie presidenziali, dove Sanders è avvantaggiato dalla prossimità di questo stato con il suo il Vermont, ed è quello che dicono tutti i più recenti sondaggi che lo vedono in testa su Hillary con un ampio distacco.

In termini di delegati alla convention che si terrà a fine luglio prossimo a Filadelfia, il bottino di Sanders in Iowa è di 21 voti contro i 23 di Hillary. In New Hampshire sono in palio 24 delegati. Se si pensa ai 4764 delegati che comporranno la convention di Filadelfia convocata per conferire la nomination democratica, il compito di Sanders appare titanico. Basti dire che quasi un quinto dei delegati, 713, lo è di diritto (parlamentari, governatori, alti dirigenti del partito, esponenti emeriti come gli ex-presidenti e vicepresidenti), e di questi 347 si sono già schierati a favore di Hillary, solo tredici per Bernie. 350 devono ancora decidere, alcuni potranno anche cambiare parere, ma è già ampiamente evidente che l’apparato democratico sostiene decisamente Clinton.
Eppure, come anche accadde nel 2008, proprio questa smaccata potenza di fuoco che esibisce Clinton – unita alla notevole disponibilità di soldi e di reti organizzative locali – può alimentare quel sentimento diffuso nei suoi confronti, della candidata «inevitabile», calata dall’alto, voluta e sostenuta dagli interessi costituiti e dunque imposta alla base elettorale delle primarie.

Sanders diventa così il campione della partecipazione dal basso, incarna una possibile alternativa. Ed è interessante anche per questo il dato dei nuovi elettori, in gran parte giovani, che in maggioranza hanno votato per lui in Iowa.
Psicologicamente è anche importante l’impatto di una partenza ad alta carburazione. Nell’immediato è un elemento che scompiglia i piani clintoniani, specie se il risultato positivo in Iowa dovesse essere confermato dal previsto successo in New Hampshire. A quel punto l’aspirazione presidenziale di Sanders sarebbe presa in seria considerazione e non sarebbe più trattata con condiscendenza dall’establishment e dai media come l’effimera scommessa di un vecchio politico sostenuto da giovani idealisti. D’altra parte, il circo mediatico è incredibilmente interessato a che la competizione democratica sia una vera corsa e che duri il più possibile.

Sulla sorte di Sanders pesa la sua scarsa presa su blocchi elettorali importanti per il Partito democratico, come quello africano americano e quello ispanico. Inoltre, quando la corsa si intensificherà e arriverà negli stati che contano davvero in termini di delegati alla convention, il divario di mezzi finanziari e organizzativi nei confronti di Hillary si farà molto sentire.

Naturalmente, peserà sull’orientamento degli elettori democratici, nelle prossime tappe delle primarie, quanto succederà nel campo repubblicano. Chi emergerà determinerà anche in una certa misura la dinamica nella corsa democratica. E viceversa. I due campi s’influenzano reciprocamente. In quello repubblicano, prima dell’inizio delle primarie, si dava per scontato che Hillary sarebbe stata la candidata democratica e, sulla base di quell’assunto, avrebbe guadagnato più punti chi avesse picchiato più duro nei suoi confronti e si fosse presentato come quello più adatto a sconfiggerla. Anche per questo Donald Trump è cresciuto nei sondaggi, come un perfetto anti-Hillary. La sua esibita misoginia ne è un evidente conferma.

In casa repubblicana, il voto dell’Iowa non chiarisce il reale stato delle cose. Ormai si è talmente abituati a valutare gli esiti delle competizioni sulla base delle previsioni che si considera Ted Cruz il front runner e Trump in caduta. Può essere, ma c’è anche da fare i conti con Marco Rubio. Tutti e tre, nel voto dell’Iowa, hanno superato il venti per cento e sono separati tra loro da pochi punti. Si profila così una corsa a tre, tre candidati nessuno dei quali in sintonia con l’apparato del Grand Old Party. L’unico che potrebbe rientrare nei ranghi ed essere sostenuto è Rubio, ma paradossalmente gli manca l’appoggio del clan Bush. Jeb è fuori corsa, ormai, potrebbe spostare sul suo ex-figlioccio, Marco, i suoi voti e soprattutto il suo consistente patrimonio di fondi elettorali, ottenuto quando i potentati vicini al GOP puntavano su di lui. Ma poiché i Bush sono convinti che proprio la candidatura di Rubio sia all’origine della disfatta di Jeb, molto difficilmente dirotteranno sul giovane senatore della Florida gli oltre cinquanta milioni di dollari rimasti in cassa per la sua campagna finita in miseria.

L’inizio di queste primarie – una maratona con altre 25 tornate elettorali in 49 stati che si concluderà a metà giugno – conferma che le organizzazioni partitiche, intrecciate in America con la forza dei clan e delle dinastie, per quanto ancora potenti, cedono terreno a movimenti dal basso e ad aggregazioni nuove, al punto da esserne perfino soppiantate. Quella che fino a non molto tempo fa sarebbe stata la sfida più ovvia – Clinton-Bush – è già fuori scena. Forse Hillary riuscirà a tenere duro e alla fine a diventare presidente. Ma se questo avverrà non sarà per certi suoi punti di forza legati al potere ma perché alla fine sarà percepita – in un confronto con un Cruz o un Trump – come simbolo dell’ultima diga alla barbarie, anche in quanto donna e anche avendo necessariamente fatto propri punti importanti del «berniesmo».

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