Editoriale

Crescita debole, ecco chi paga

Crescita debole, ecco chi pagaPier Carlo Padoan

Stagnazione secolare La crisi globale presenta il conto alle politiche liberiste che hanno cavalcato le scorribande della finanza

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 19 febbraio 2016

No, non ce la fa. L’economia mondiale non si riprende. Anzi. L’ultima botta all’ottimismo incosciente lo ha dato nientemeno che l’Ocse, dopo che già il Fmi aveva abbassato le stime della crescita. Secondo l’organizzazione di Parigi, il Pil globale aumenterà del 3% nell’anno in corso e del 3,3% nel 2017. Si tratta di uno 0,3% rispetto alle precedenti previsioni. In questo modo l’espansione del Pil globale nel 2016 non risulterebbe diversa da quella del 2015, che «di per sé aveva segnato il ritmo di crescita più lento degli ultimi cinque anni».

Le economie emergenti rallentano in modo vistoso. L’India forse supererà la Cina, ma in una corsa al ribasso. Per quanto riguarda l’Eurozona, dice l’Ocse, i potenziali benefici della riduzione del prezzo del petrolio non si sono fatti sentire. I bassissimi tassi di interesse e l’euro debole non sono bastati per favorire uno sviluppo degli investimenti, mentre le sofferenze bancarie «restringono il canale creditizio della trasmissione della politica monetaria».

Per cui è prevedibile che gli effetti di una nuova espansione di quest’ultima, prevista dopo la riunione della Bce del prossimo 10 marzo, siano già alle spalle o rimangano strozzati dal mal funzionamento generale del sistema. Col “sindacalese” di una volta si sarebbe detto che il “cavallo non beve”.

L’Italia è in linea con queste pessime previsioni. Non c’è da stupirsi quindi se l’Ocse ci attribuisce un aumento del Pil del solo 1%, in netta retrocessione rispetto all’1,4% attribuitoci solo nel novembre scorso. Del resto anche la Corte dei Conti si fa sentire. Il Presidente Raffaele Squitieri all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2016 spegne ogni speranza sulla spending review renziana, che viene anzi considerata responsabile della riduzione dei servizi reali ai cittadini, in nessun modo considerabili superflui. Basta gettare un occhio alla sanità pubblica!

Lawrence Summers può quindi tornare sulla sua analisi preferita, quello che lo portò alla fine del 2013 a diagnosticare una “stagnazione secolare” per il mondo intero, con il corollario dell’incremento a dismisura delle diseguaglianze. Peraltro con il sostanziale accordo di Paul Krugman. L’altro giorno scriveva sul Financial Times : «Il coordinamento globale dovrebbe smetterla di perdere tempo dietro ai luoghi comuni su riforme strutturali e risanamento dei conti pubblici e lavorare per garantire una domanda adeguata a livello globale». Invece in Europa si fa l’esatto contrario. Mentre la prospettiva di una nuova fase recessiva dell’economia americana è tutt’altro che fantascientifica. Summers la prevede in termini molto pesanti già per l’anno in corso e soprattutto per i prossimi due. Janet Yellen, presidentessa della Fed, fa capire di temerla visto che ha bloccato il rialzo dei tassi e anzi non esclude persino di portarli in territorio negativo. Le minute dell’ultimo consiglio della Bce di gennaio non solo rivelano le divisioni al proprio interno, ma molto scetticismo sulla possibilità d’impedire o solo frenare l’avvitamento verso il basso dell’inflazione, malgrado l’ottimismo della volontà di Mario Draghi.

La definizione “stagnazione secolare” non è nuova. Venne coniata da Alvin Hansen, uno dei più importanti seguaci e propalatori delle teorie di Keynes. Secondo Hansen, apprezzato anche da Paul Samuelson e James Tobin e in parte ripreso in campo marxista da Paul Sweezy, la tendenza strutturale alla stagnazione sarebbe stata provocata da una asfittica dinamica dei consumi accompagnata dalla fine della mobilitazione bellica che aveva portato indubbiamente a un incremento della capacità produttiva. Si disse poi che la preoccupazione di Hansen si era dimostrata del tutto infondata di fronte ai trent’anni “gloriosi” dello sviluppo capitalistico postbellico. Ma non si fece tesoro del fatto che fu proprio l’incremento dell’intervento pubblico in economia e l’allargarsi dello stato sociale, grazie alle lotte del movimento operaio e democratico, a fornire le basi per quell’insuperato periodo di sviluppo economico. L’affermazione dei bisogni e dei diritti sul piano sociale, a partire dai luoghi della produzione, aveva costituito una leva formidabile per tutta l’economia. Ed era quello che mancava non solo in Hansen, ma per certi aspetti persino nel suo maestro Keynes.

Ma nei lunghi decenni dell’egemonia neoliberista tuttora imperante, quello stato sociale è stato abbattuto per fare spazio ad una nuova fase di accumulazione e di scorribande per il capitale finanziario, mentre l’intervento pubblico ha assunto un carattere sempre più residuale e sempre meno innovativo. A quelle leve bisogna oggi guardare in termini innovativi per progettare una nuova società. A questo serve un nuovo soggetto di sinistra che ancora non c’è. Non basta abbattere il mito della crescita se ci si perde nella foresta pietrificata delle diseguaglianze.

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