Editoriale

Nazioni d’Europa, il vaso di Pandora non si chiude

Nazioni d’Europa, il vaso di Pandora non si chiude/var/www/ilmanifesto/data/wordpress/wp content/uploads/2014/09/19/20 desk 2 scozia taglio basso ependence – Reuters

Referendum scozzese Ha vinto la ragione sul cuore. Le pressioni della City. Il peso del passato. Il nazionalismo civico e non identitario degli scozzesi. Ma ha senso che la sinistra si esaurisca in questo tipo di battaglie? Il rischio di aprire un vaso di Pandora di rivendicazioni locali molto meno simpatiche. A Edimburgo sono stati promessi dei vantaggi, la Gran Bretagna diventa comunque meno unita. Un futuro incerto, soprattutto con il referendum sull'Europa del 2017

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 20 settembre 2014

La ragione ha vinto sulle ragioni del cuore. La proposta, colorata di romanticismo, di una Scozia indipendente si è scontrata con l’empirismo (altro prodotto locale, del resto David Hume era scozzese) che ha suggerito che troppe incognite e troppe minacce avrebbero pesato sulla viabilità di un piccolo stato al nord dell’Inghilterra, dopo 307 anni di unione.

A Londra hanno tirato un sospiro di sollievo, come a Bruxelles, dove l’indipendenza di una parte di uno stato membro sarebbe caduta in un vuoto giuridico. Sollievo anche in altri stati della Ue, a cominciare dalla Spagna (ma non solo).

Perché una Scozia indipendente avrebbe aperto il vaso di Pandora delle domande di secessione in altre regioni, in un momento in cui l’Europa sta già attraversando una grave crisi. Gli indipendentisti puntano il dito contro la City, che ha schierato il suo peso a favore del «no», minacciando gli scozzesi di perdere la sede delle grandi banche (Royal Bank of Scotland e Lloyd Banking Group) e di delocalizzare posti di lavoro.

Visto più da vicino, il romanticismo europeista dell’indipendenza perde un po’ di piume sul fronte finanziario, poiché la finanza è il secondo settore economico della Scozia dopo il petrolio e quindi l’ipotetico governo di Edimburgo avrebbe dovuto sporcarsi le mani. A Glasgow, città industriale che ha dato la maggioranza al «sì», gli elettori criticano il clima di paura imposto dalla «banda di Westminster», con la calata in Scozia negli ultimi giorni della campagna del primo ministro Cameron e del leader del Labour Ed Miliband in combutta con «businessmen e banchieri».
Il cuore che ha spinto a scegliere la casella «yes» ha radici profonde in Scozia, che dai tempi di Margaret Thatcher ha cominciato a sognare in termini un po’ concreti la secessione. Gli anni della Lady di ferro sono stati molto sofferti in una nazione abituata al voto laburista, dove lo Scottish National Party di Alex Salmond (da ieri dimissionario) che negli anni ’80 era stato escluso dal partito perché troppo a sinistra, prometteva di ripristinare il welfare, finanziandolo con la manna del petrolio.

Molta sinistra della sinistra europea ha condiviso questa battaglia per il «sì», in nome di una ribellione all’austerità imposta da Bruxelles, in ottemperanza alle imposizioni dei mercati mondializzati. Per il «sì» hanno votato molti giovani (il voto era stato aperto dai 16 anni). Lo Scottish National Party ha presentato un nazionalismo «civico» e non «identitario», che ha sedotto a sinistra. Ma c’è da chiedersi se ha senso che la sinistra, per combattere il diktat del rigore, debba esaurirsi in battaglie di questo tipo: rifiuto l’idea che non ci sia alternativa, allora mi chiudo nel mio piccolo mondo dove sono padrone a casa mia, continuando a sognare un europeismo velato di utopia. In altri paesi, purtroppo, il nazionalismo localista prende colori molto più foschi, che nulla hanno a che vedere con la tradizione del nazionalismo scozzese.

Resta il fatto che la Gran Bretagna, dopo il voto, non sarà più la stessa. Presi dal panico sia David Cameron che il leader del Labour Ed Miliband (che spera di essere destinato a governare anche grazie al voto scozzese), hanno fatto molte promesse che vanno nel senso delle richieste degli indipendentisti.

Cameron, che ha rischiato di perdere tutto, si è impegnato su una legge «devo max», cioè il massimo di devolution, in particolare un trasferimento delle prerogative fiscali finora rifiutate e un bonus di spesa pubblica a favore di ogni scozzese (19% in più rispetto a ogni inglese). Una bomba a orologeria, perché è facile immaginare che non solo in Galles o in Irlanda del Nord chiederanno la stessa cosa, ma che in Inghilterra saranno numerosi a rifiutarsi di pagare per il benessere delle scuole o degli ospedali scozzesi mentre i loro cadono a pezzi.

Alcuni deputati inglesi già chiedono che siano solo gli inglesi a votare su questioni che riguardano solo questa parte del Regno. C’è chi prevede un accordo costituzionale scritto (qui la Costituzione non lo è) e la trasformazione della Camera dei Lords in Camera delle regioni. Per non parlare del fatto che la questione dell’indipendenza, con il 45% dei voti, non è del tutto chiusa: cosa succederà se vincerà il rifiuto del mantenimento dell’adesione alla Ue al referendum previsto da Cameron per il 2017? La Scozia europeista potrebbe riprovarci, ottenendo un risultato opposto a quello di ieri. Per il momento, la chiesa protestante scozzese, erede di John Knox, propone sedute di «riconciliazione» (come in Sudafrica) per riportare la pace tra sostenitori del «sì» e del «no».

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