Davos rimuove le diseguaglianze
World Economic Forum Uno studio preparato apposta per il meeting non sembra dare spazio a grandi entusiasmi. La ricerca mostra come gli eventi recenti abbiano fatto evaporare la fiducia nel mondo del business e in quello delle istituzioni pubbliche
World Economic Forum Uno studio preparato apposta per il meeting non sembra dare spazio a grandi entusiasmi. La ricerca mostra come gli eventi recenti abbiano fatto evaporare la fiducia nel mondo del business e in quello delle istituzioni pubbliche
Il World Economic Forum per il 2015 si apre a Davos in tono dimesso. Uno studio preparato apposta per il meeting non sembra dare spazio a grandi entusiasmi.
La ricerca mostra come gli eventi recenti abbiano fatto evaporare nel mondo la fiducia nel mondo del business ed in quello delle istituzioni pubbliche. Il livello di tale fiducia sembra oggi aver raggiunto il punto più basso dopo lo scoppio della crisi. Questo porta, come commenta ad esempio il Financial Times, ad aumentare lo stato di angoscia degli attuali gruppi dirigenti dell’economia. Né li aiuta una dichiarazione fatta da uno dei protagonisti dell’incontro, secondo la quale il terrorismo e la geopolitica gettano la loro ombra su questa edizione del forum, rappresentando una minaccia per la stabilità mondiale. Infine non aiutano neanche le ultime previsioni del Fondo Monetario Internazionale, che riducono le precedenti stime sulla crescita economica mondiale per il 2015 e oltre.
Ma chissà quanto, durante l’incontro, i partecipanti si preoccuperanno invece dei dati che sono stati appena pubblicati in tema di disuguaglianza dei redditi e dei patrimoni in Italia e nel mondo.
Quelli che riguardano il nostro paese, secondo un’analisi di Repubblica sulla base anche di dati forniti dalla Banca d’Italia, ci raccontano che nel 2008 le dieci famiglie più ricche controllavano più o meno la metà del patrimonio posseduto dal 30% più povero degli italiani. Ma nel 2013, appena cinque anni dopo, sempre le prime dieci famiglie avevano un patrimonio che era ormai superiore a quello del 30% più povero, avendo aumentato la loro ricchezza del 70%, mentre quella dei più poveri si riduceva e il pil si contraeva del 12%.
Ancora più drammatici risultano essere i dati pubblicati da Oxfam a livello mondiale. Essi mostrano che nel 2013 una novantina di persone possedevano una ricchezza pari a quella del 50% più povero della popolazione mondiale. Di più, secondo le previsioni dello stesso ente, nel 2016 la ricchezza dell’1% della popolazione del globo supererà quella del restante 99%. La stessa Oxfam ha comunque dichiarato che essa domanderà al summit di Davos di intervenire in maniera urgente sulla questione.
Va ricordato che negli ultimi decenni la politica si è occupata molto poco di lotta alle diseguaglianze, anzi numerosi fatti, come, ad esempio, la riduzione in alcuni importanti paesi del peso del fisco sulle grandi ricchezze e sui redditi più importanti, mostra che semmai essa tende a preoccuparsi soltanto di aumentarle e non certo di contrarle.
Né se ne sono preoccupati molto di più, sino almeno allo scoppio della crisi, gli economisti neo-liberisti, cani di guardia del potere.
Semmai si sono sviluppate nel tempo diverse teorie consolatorie al riguardo. Ricordiamo così quella relativa alla curva di distribuzione del reddito, sviluppata da Kuznets ormai diversi decenni fa e molto apprezzata in giro; secondo tale impostazione, le diseguaglianze crescono nella prima fase dello sviluppo di un paese, per poi man mano ridursi al crescere del pil dello stesso. O quella del cosiddetto «gocciolamento» o «trickle-down», teoria parallela a quella precedente, secondo la quale la ricchezza si diffonde automaticamente e progressivamente dalle classi più ricche a quelle più povere. O possiamo citare, infine, la stessa ideologia meritocratica, in realtà anch’essa, nella sostanza, una giustificazione delle diseguaglianze.
All’ombra di tali impostazioni intanto, ad esempio, gli stipendi dei manager statunitensi che ancora qualche decennio fa erano in media pari a 30-40 volte quelli dei loro operai, oggi sono cresciuti sino a 400-500 e anche mille volte.
Poi è venuta la crisi a mostrare la vacuità delle concezioni sopra ricordate e a mettere in primo piano il problema della distribuzione. Più di recente, la pubblicazione del volume di Thomas Picketty «Il capitale del XXI secolo», libro pur per alcuni versi discutibile, ha molto contribuito a porre la questione sotto una luce molto forte.
Esso ha incontrato un grande successo di vendite anche nel mondo anglosassone, segno che era stato toccato un nervo scoperto. Il Wall Street Journal ha perso le staffe ed accusato Piketty di essere un comunista, mentre anche il di solito più onesto ed equilibrato Financial Times ha cercato in modo scomposto, ma invano, di contestare le cifre dell’economista francese.
Ma naturalmente, nonostante Piketty, non c’è da sperare molto nell’azione dei governi. Obama scopre il problema piuttosto tardi, probabilmente per tirare la volata al candidato democratico alle prossime elezioni presidenziali, avendo proposto nei giorni scorsi di aumentare le tasse ai più ricchi e di ridistribuire il ricavato a favore del ceto medio.
Intanto in Francia come in Italia gli attuali governi intonano degli inni d’amore verso i ceti più ricchi e di redistribuzione dei redditi non ne parlano affatto: sarebbe molto sconveniente.
Né pensiamo, nonostante gli appelli di Oxfam, che faranno veramente qualcosa quelli di Davos. Preferiranno tenersi le loro angosce piuttosto che aprire il portafoglio.
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