De Mita e la sinistra, un rapporto di sfida culturale
Editoriale

De Mita e la sinistra, un rapporto di sfida culturale

Sergio Mattarella, Ciriaco De Mita e Tina Anselmi – Ansa

Prima repubblica Con il partito comunista De Mita non voleva fare il governo, ma costruire l’architettura delle riforme istituzionali, puntando su un maggior potere di controllo del Parlamento e concordando sul fatto che l’origine della crisi morale risiedesse proprio nella crisi istituzionale

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 27 maggio 2022

Il democratico cristiano Ciriaco De Mita, è con questi due aggettivi che diceva di voler essere ricordato, è stato il più longevo segretario della Dc, e il capo della corrente più grande e più stimolante di un partito-Stato che, al suo interno, vedeva rappresentato l’intero arco costituzionale: dall’estrema sinistra dei Granelli alla estrema destra dei Forlani.

Seguire la vicenda democristiana significava attraversare gran parte del le culture politiche della Prima Repubblica. E occuparsi, in particolare, della sinistra demitiana voleva dire cimentarsi con i famosi ragionamenti ellittici del segretario. L’uomo di Nusco era molto interessato al confronto con la sinistra, per lui una sfida tra i due grandi partiti popolari del Dopoguerra.

E dalle sue provocazioni politico-intellettuali, la sinistra e il Pci, a loro volta, erano stimolati a discutere delle contraddizioni e anche delle sconfitte del Demitapensiero, come con brillante sintesi ebbe a definirlo sul manifesto Mauro Paissan (coniando un neologismo poi molto citato nelle cronache politico-giornalistiche).

Mentre nei convegni della famiglia dorotea, come di quella andreottiana, si parlava il linguaggio del potere e del governo, assistere ai raduni della sinistra demitiana significava imbattersi nella prosa immaginifica che irretiva l’interlocutore al quale facilmente poteva capitare di vedersi rivolgere contemporaneamente la questione di come superare la società dei “due terzi” del sociologo Daherendorf, e nello stesso tempo di come si poteva articolare la sfida tra riformismo socialista e popolarismo sturziano.

In sostanza il Demitapensiero, si collocava sulla scia della cultura politica morotea sia per l’attenzione verso i cambiamenti sociali e sia, di riflesso, verso l’area del Pci e della sinistra, compresa quella eretica del manifesto, testimoniata da un forum che De Mita venne a fare con la redazione di via Tomacelli.

Sul finire degli anni ’80, quando si approssimava il crollo dell’Urss, la lettura demitiana del partito comunista e più in generale del rapporto tra partiti e società diceva così: «Il Pci è un partito in grave e profonda crisi; sarebbe per noi mortale far finta che questa crisi non ci sia. Il nostro compito è quello di far crescere il dialogo con tutte le forze politiche. De Gasperi e Moro hanno vinto per questo. Ma non possiamo dire che il Pci si è evoluto e poi restare fermi alle formule degli anni ’50».

A via delle Botteghe oscure c’era Natta e il vicesegretario era Occhetto. Con il partito comunista De Mita non voleva fare il governo, ma costruire l’architettura delle riforme istituzionali, puntando su un maggior potere di controllo del Parlamento e concordando sul fatto che l’origine della crisi morale risiedesse proprio nella crisi istituzionale perché, secondo De Mita, l’immoralità della politica derivava appunto dall’inefficacia delle istituzioni, vero motivo del discredito e del distacco tra governanti e governati. Ma, a differenza della Grande riforma di Craxi, quella demitiana era connotata da una forte avversione al presidenzialismo, e collegata a una riforma elettorale per cui l’elettore insieme al partito doveva scegliere una coalizione.

Una linea che prosciugava l’acqua al mulino di Craxi, e che in qualche modo superava lo schema di Moro fautore di una corresponsabilizzazione del Pci nell’area di governo. Un progetto di riforme che lo porterà allo scontro, duro e pubblico, con Cossiga che esternava bombardando la Costituzione.

De Mita vedeva arrivare la fine dei partiti e molti anni dopo, doppiamente sconfitto, nel partito e nel governo (fatale gli fu l’esperienza del doppio incarico: a piazza del Gesù e a palazzo Chigi), nel ’91, alla vigilia del crollo della Prima Repubblica, in una Conferenza d’organizzazione, lanciava l’allarme sulla democrazia a rischio, facendone iniziare la crisi, proprio sulla scia della riflessione di Moro, nel fatidico 1968, «quando la domanda di partecipazione non trova risposta», e facendo coincidere la sconfitta del terrorismo «con l’inizio della rassegnazione», con la riduzione cioè del governo «a pura gestione del potere».

Se i rapporti a sinistra erano di interlocuzione-competizione con il Pci e solo di scontro con il Psi di Craxi, nei confronti del suo stesso partito, che aveva preso per i capelli dopo lo sprofondo elettorale e lo scandalo della P2, riportandolo al centro della scena, il rapporto era di battaglia aperta. In una famosa intervista a Panorama, nel dicembre dell’87, le parole di De Mita curiosamente oggi sembrano sovrapporsi a quelle che alcuni decenni dopo pronuncerà Zingaretti verso il Pd. «Nel mio partito – dice De Mita – vedo cose che mi fanno venir la nausea». Invece la passione per la politica non lo ha mai abbandonato, fino alla morte. Perché di sé gli piaceva dire «sono una bestia politica, come chi fa il calciatore, chi fa l’artista …».

 

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