Dignità e il professionismo
Sport In Spagna il presidente del San Pablo Burgos, squadra di pallacanestro, impone ai suoi giocatori appena retrocesso di mettersi in ginocchio e chiedere 'perdono' ai tifosi...
Sport In Spagna il presidente del San Pablo Burgos, squadra di pallacanestro, impone ai suoi giocatori appena retrocesso di mettersi in ginocchio e chiedere 'perdono' ai tifosi...
In ginocchio, ai piedi della curva, per chiedere scusa ai tifosi. In punizione, per un minuto, su ordine del presidente per l’espiazione del peccato, la retrocessione dopo 11 anni di massima serie. E’ accaduto al San Pablo Burgos, squadra di pallacanestro spagnola. Pure il presidente, Felix Sancho si è piazzato sulle ginocchia a scontare la colpa. Cioè, aver osato perdere una partita e quindi retrocedere. Il tecnico della squadra avversaria (il Manresa) ha commentato: “Non si deve chiedere perdono quando si perde, se si è stati comunque dei veri professionisti”. “Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio”, diceva Emiliano Zapata e c’è poco da giustificare pensando a uno scatto di bile del presidente amareggiato per la retrocessione: è solo la fotografia di un modo di intendere, vivere lo sport e la vita dove la professionalità può essere calpestata, messa da parte, in virtù di un risultato sportivo, di un gol o una partita persa.
SPECIE i professionisti: sono ben pagati (ma questo solo ad alto livello, tra l’altro), perdono, retrocedono? Quindi devono scusarsi, sottomettersi al giudizio dei tifosi vestiti da Ponzio Pilato. L’immagine di una cultura oscurantista, ritualista: inginocchiamenti, perdoni, concessioni. Anche in Italia si è assistito a scene grottesche. Dalle serie maggiori alle minori. Ora vanno più di moda gli assalti online degli haters ma a Napoli un paio di settimane fa una fetta del tifo organizzato ha consegnato un paniere di uova al capitano degli azzurri, Lorenzo Insigne, da destinare, una a testa, ai suoi compagni di squadra. Ed è solo incidentale sottolineare che il Napoli era terzo in classifica. Incidentale perché non può essere il risultato sportivo a determinare se un gesto del genere vada a svilire la dignità di un atleta.
E’ ACCADUTO un po’ ovunque. Alla Roma i calciatori sono andati a farsi insultare sotto alle curve nel 2013 e poi nel 2004, quando gli ultras giallorossi e laziali, imposero alla Questura il rinvio del derby della capitale per la presunta morte di un bambino, investito da un’auto della polizia, con Totti e Cassano in silenzio, a rapporto, senza parole. Il fenomeno era così radicato che nel 2015 la Figc inserì delle sanzioni nel codice di giustizia sportiva per gli atleti a colloquio con gli ultras sotto le curve. Ma non sono un paio di norme a impedire assalti agli allenamenti, minacce, intimidazioni.
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