Dopo la farsa arriva il vero spettacolo
Sipario Da tempo, e ormai senza il religioso consenso del popolo che gli cantava in coro "meno male che Silvio c’è", era evidente a tutti tranne che a lui che l’antica gloria non potesse risorgere sulle ali di una improbabile maggioranza dei grandi elettori.
Sipario Da tempo, e ormai senza il religioso consenso del popolo che gli cantava in coro "meno male che Silvio c’è", era evidente a tutti tranne che a lui che l’antica gloria non potesse risorgere sulle ali di una improbabile maggioranza dei grandi elettori.
Senza nemmeno la maschera drammatica di una Gloria Swanson sul viale del tramonto, ma piuttosto con i toni di una farsa degna dei fratelli Vanzina, Silvio Berlusconi ha gettato la spugna, rinunciando alla folle, incredibile corsa verso il Quirinale. È una liberazione, innanzitutto per il paese, che non meritava di essere intrattenuto da questa sceneggiata. E anche per il centrodestra che Berlusconi ha continuato a tenere sulla corda con sbrindellate riunioni via zoom, poco consone a una decisione così importante, come dovrebbe essere l’elezione del Presidente della Repubblica.
Da tempo, e ormai senza il religioso consenso del popolo che gli cantava in coro “meno male che Silvio c’è”, era evidente a tutti tranne che a lui che l’antica gloria non potesse risorgere sulle ali di una improbabile maggioranza dei grandi elettori. Eppure, grazie alla cerchia dei suoi cortigiani e al call center messo su da uno che gli deve molto, come Sgarbi, è riuscito a tenere l’Italia in balia delle sue senili voglie di potere.
Dopo il gran conclave con il generale in disarmo e i colonnelli a guardarsi le spalle l’un contro l’altro armati, all’attesa uscita di scena è seguita una specie di parola d’ordine rimbalzata tra i vari capipartito: Draghi resti al suo posto e non si azzardi a pensare al Quirinale. Vedremo presto cosa accadrà.
Ma se Mario Draghi traslocherà al Quirinale e un suo portavoce siederà a palazzo Chigi, allora passeremo dalla farsa alla tragicommedia, non più nelle corde di un Vanzina, ma piuttosto degna del grande genio di Dario Fo. È possibile infatti che dopo il pit-stop a palazzo Chigi, Draghi possa tagliare il traguardo quirinalizio che da domani, con l’inizio delle votazioni, entra nella fase fondamentale. Non era poi così difficile prevedere il grande balzo della sua avventura politica in Italia, sbandierata dai grandi giornali quando ancora la maggioranza giallorossa cercava di restare a galla (“Draghi punta al Quirinale, figuriamoci se si mette nella palude della politica”).
Invece Supermario ha dovuto sporcarsi le mani con il governo. E con discutibili risultati: legge di Bilancio iniqua, incerta gestione della pandemia, enorme crescita della precarietà e della disoccupazione, specialmente femminile, grottesca (ancora il nucleare?) politica ambientale. Ma ora che il più è fatto e che chiunque, anche un pilota automatico, può proseguire nell’attuazione del programma già definito (parole di Draghi), tutto è dunque pronto per la corona presidenziale.
E per vestire i panni di presidente del consiglio pro-tempore (fino alle nuove elezioni, quanto mai disturbanti e inopportune), si sta cercando un “collega”, o meglio, un suo Avatar, come definimmo questa singolare figura di premier in seconda, subito dopo aver assistito alla famosa conferenza stampa natalizia. Avremo perciò un altro civil servant pescato nell’attuale squadra di governo o, ancor meglio, nel parco pensionati di rango (sembra che il Consiglio di Stato ne abbia una riserva)?
I più affezionati alla vecchia idea della democrazia non hanno perso la speranza che a dirigere il governo possa essere un uomo (o una donna) con una storia politica. Ma nel momento in cui è diventato un punto di merito non avere un passato nei partiti (i grandi giornali, sempre loro, esaltano il fatto che non si sappia per chi voti Draghi, unico caso in Occidente di premier “politicamente clandestino”), passa il messaggio qualunquista, e fascistoide, che è meglio lavorare e non parlare di politica: non bisogna disturbare. Ma disturbare chi? Le strutture economiche europee e quelle finanziarie (“i mercati”), le stesse che hanno catapultato Draghi a palazzo Chigi per affossare un governo di centrosinistra inviso a Confindustria e che, per giunta, aveva la pretesa di spendere la valanga di miliardi del Pnrr.
Completare la metamorfosi di una democrazia in tecnocrazia, o come la chiama il professor Luciano Canfora, nella “democrazia dei ricchi” in nemmeno un anno, non è semplice. Il doppio salto mortale Quirinale-governo richiede abilità manovriere non comuni. Innanzitutto per districare un ingorgo istituzionale (l’attuale premier che nomina il suo successore), mai visto prima. Nulla però avviene a caso, e senza stare qui a ripetere la giaculatoria sulla crisi della politica, si può dire che i tempi per la rivoluzione dall’alto sono più che maturi. D’altra parte non siamo forse il paese dove metà dell’elettorato non vota più?
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