Editoriale

Dopo Nimrud, Hatra. Serve la protezione Onu

Guerra/Archeologia Come agire? Le convenzioni dell’Aja (1954 e 1999), non bastano. Prevederebbero anche interventi diretti, però sono state disattese persino nella prescrizione delle misure protettive per le aree più delicate e importanti. È che gli apparati giuridici non sono corrispondenti alla storia, alla sfida in atto, al nuovo desiderio di paesaggio sostenibile.

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 8 marzo 2015

Ninive, Nimrud, ieri Hatra. Un altro patrimonio dell’umanità, preziosa fonte del mondo romano e della cultura dei Parti fra il primo ed il terzo secolo d.C.
Non percepiamo la dimensione reale delle distruzioni, ma su Nimrud una notizia di Al-Jazeera sembra purtroppo indicare la distruzione del «Palazzo Nord-Ovest» di Assurnasirpal II, prodigio narrativo e decorativo del IX secolo a.C. Si percepisce sgomento, voglia di capire. Semplificazioni. È una guerra, una doppia guerra carica di fusioni per certi versi impensabili fra passato e presente.

Un presente molto arcaico, e lontano da interpretazioni e concezioni prevalenti nello stesso Islam, mi appare lo spirito religioso che si afferma solo con la distruzione dei segni altrui. Lo si legge nella condanna di empietà e idolatria lanciata su piramidi e Sfinge; la stessa polverizzò nel 2001 il Buddha del Bayman, in Afghanistan. Non è certo ignoto ai fondamenti religiosi veterotestamentari, ai millenari pronunciamenti dei vescovi cristiani contro religioni pagane, spettacoli e mascheramenti.

Ninive, Nimrud, ieri Hatra. Un altro patrimonio dell’umanità, preziosa fonte del mondo romano e della cultura dei Parti fra il primo ed il terzo secolo d.C.

Non percepiamo la dimensione reale delle distruzioni, ma su Nimrud una notizia di Al-Jazeera sembra purtroppo indicare la distruzione del «Palazzo Nord-Ovest» di Assurnasirpal II, prodigio narrativo e decorativo del IX secolo a.C. Si percepisce sgomento, voglia di capire. Semplificazioni. È una guerra, una doppia guerra carica di fusioni per certi versi impensabili fra passato e presente.
Ma sbaglieremmo a interpretare tutto ciò solo come uno scontro con quella modernità che acquisisce, fra il Settecento e l’Ottocento, la necessità di una racconto nazionale legandola al senso del pubblico patrimonio culturale.

È modernità l’invettiva nazista sull’arte degenerata e il rogo dei libri, che si accompagnano al furto e al traffico d’arte, l’uso dei new media, la pratica «senza incertezze» del profitto che si fonde alla guerra. E Isis, che pure ci ricorda gli antichi furti al «tesoro» nemico e le pratiche della Damnatio Memoriae, la produce, regalando identità e segni di appartenenza contemporanea a giovani socialmente frantumati nelle periferie occidentali. Identità?

Eppure il «califfato» è il peggior nemico della sua forma evoluta. Se non può eliminare la memoria costruita catalogando, studiando, interpretando e producendo saperi, interviene direttamente su paesaggio, fondamento delle identità di luoghi e comunità.

L’orrore di queste distruzioni non può in ogni caso farci tralasciare il più ampio contesto, le associazioni stratigrafiche, i confronti… Nel 2003 in Iraq la rete dei musei «regionali» fu devastata. Centocinquantamila oggetti distrutti e saccheggiati al Museo di Baghdad, decine di migliaia di manoscritti: neppure un carro armato statunitense fermo di fronte al Museo di Baghdad o di Mossul, nonostante le richieste degli archeologi iracheni.

L’Occidente si riempì di capolavori prelevati a piene mani dalla manovalanza diretta dai fili «segreti» dei grandi mercati d’arte, di rispettabili musei e case d’asta. Si dimise Martin Sullivan, il principale consigliere culturale del presidente americano George W. Bush, e Gary Vikan, direttore del museo Walters di Baltimora, membro della commissione culturale governativa statunitense. Dichiarò che gli Stati Uniti «sono consapevoli del valore del petrolio ma non di quello delle opere d’arte».

Anche oggi – come ventidue anni fa – si rubano i reperti archeologi per fare denaro, stavolta per finanziare la guerra di Isis. E oggi il Vicino Oriente è ancora più instabile di quanto Paolo Matthiae, il celebre assiriologo (che proprio su Nimrud ha dato studi fondamentali), denunciava proprio nella Rivista del Manifesto (luglio-agosto 2003, n. 41, «L’impero in Mesopotamia»).

Come agire? Le convenzioni dell’Aja (1954 e 1999), non bastano. Prevederebbero anche interventi diretti, però sono state disattese persino nella prescrizione delle misure protettive per le aree più delicate e importanti. È che gli apparati giuridici non sono corrispondenti alla storia, alla sfida in atto, al nuovo desiderio di paesaggio sostenibile.

Ma intanto si impone – lo ha indicato anche l’Unesco – il blocco dei traffici: si vieti allora, in ogni paese, l’acquisto di manufatti archeologici provenienti dalle regioni interessate dal conflitto (anche nei canali e negli stati che non prevedono come reato il commercio di reperti archeologici).

Sarebbe soprattutto necessaria, senza indugio, una iniziativa straordinaria dell’Onu, promossa dall’Unesco, chiedendo le firme agli stati che ancora non l’hanno fatto sui protocolli e le convenzioni dell’Aja. Intervenendo sui luoghi programmando interventi di vigilanza fisica, finanziando protezione e recupero delle aree archeologiche. Istituendo processi contro i crimini verso il patrimonio culturale.

Da ultimo: non amo troppo appelli vari, ma credo che questa volta sia necessario farlo, e mi auguro che almeno il mondo progressista sia all’altezza di questa delicata sfida globale.

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