Draghi, non bastano le buone intenzioni
Sapendo che, al di là delle promesse programmatiche, la sua nomina al timone della politica italiana è una trave nell’occhio del sistema democratico, Mario Draghi ha iniziato il suo discorso […]
Sapendo che, al di là delle promesse programmatiche, la sua nomina al timone della politica italiana è una trave nell’occhio del sistema democratico, Mario Draghi ha iniziato il suo discorso […]
Sapendo che, al di là delle promesse programmatiche, la sua nomina al timone della politica italiana è una trave nell’occhio del sistema democratico, Mario Draghi ha iniziato il suo discorso di investitura rivolgendo al parlamento una captatio benevolentiae con l’evocazione dello spirito repubblicano.
E sapendo che il suo essere stato catapultato a palazzo Chigi segna un arretramento della normale e virtuosa contrapposizione tra maggioranza e opposizione, ha assicurato che il suo ruolo non segna il fallimento della politica perché a nessuno è stato chiesto “un passo indietro rispetto alla propri identità”, anche se ha poi dovuto convenire che “prima di ogni appartenenza c’è il diritto di cittadinanza” dove “ciascuno rinuncia a qualcosa per il bene di tutti”.
Una volta chiamato a santo protettore Cavour e il bene supremo della nazione per profumare l’odore del dirigismo finanziario, ancor prima di addentrarsi sulle linee programmatiche, Draghi ha rivolto a Conte un ringraziamento suffragato dal riferimento ai binari costruiti del suo predecessore, sul punto cruciale del Recovery plan, della lotta alla pandemia, del cambiamento del modello di sviluppo attraverso una rivoluzione ecologica.
Un discorso è un discorso e nulla garantisce che un “Conte ter” spostato a destra sia la soluzione. Anzi.
Ma se dobbiamo stare alle parole pronunciate ieri nell’aula del Senato, sono da rimarcare tre passaggi significativi.
A cominciare dal ripetuto riferimento alla parità di genere, a quel “farisaico rispetto delle quote” che anche laddove si riesce a raggiungere, è poi immediatamente smentito dalla “disparità salariale, tra le più alte d’Europa”. Così come, a proposito delle politiche per il Sud, ha insistito sul l’occupazione femminile.
Il secondo elemento di forte connotazione è giunto a metà discorso con la citazione delle parole di papa Francesco sulla necessaria radicalità del rispetto dell’ambiente, mettendo in stretta relazione la pandemia, il salto del virus dall’animale all’uomo, con la tumultuosa distruzione del pianeta: “Vogliamo lasciare un buon pianeta non solo una buona moneta”.
Di conseguenza, e siamo al terzo punto, la necessità di cambiare modello di sviluppo, ricondotto a molteplici aspetti, ma reso concreto con un esempio che tutti capiscono, specialmente in un paese come il nostro.
Draghi ha preso di petto il turismo, allontanando la vulgata del Bengodi dei costruttori e declinandolo invece in chiave di “preservazione del patrimonio naturale e artistico”. Tornando sul tema anche in sede di replica.
E se qualche vena polemica si è fatta sentire nel lungo intervento, è stata indirizzata alla destra leghista. Sia sul sistema fiscale (con la menzione della riforma elaborata dalla Commissione Visentini), sia sul fatto che “non c’è sovranità nella solitudine”, sia “sull’irreversibilità dell’euro”, come sulla sanità territoriale e di comunità, il contrario cioè del fallimentare modello lombardo.
Come queste impegnative parole (naturalmente insieme ad altre meno condivisibili) non siano destinate a restare lettera morta con un governo che, nella parte tecnica in primo luogo, non vede neppure l’ombra di un ecologista, ma, al contrario si consegna a una sfilza di economisti, è davvero arduo da credere.
E più in generale come tutto il vasto programma non si riduca poi a un’idea di aziendalizzazione del paese, in una sorta di berlusconismo di ritorno: il sistema Italia come un’azienda affidata a un buon padre di famiglia che rimette a posto il bilancio con un neoliberismo temperato.
Come possa conciliarsi, proprio l’annunciato cambiamento nel turismo avendo piazzato in quella casella un leghista alfiere dello sviluppismo è una contraddizione in termini.
Questo governo di tutti e di nessuno è tuttavia una sfida anche per la sinistra, sia per quella che gli voterà la fiducia, sia per quella che gli dirà di no.
In questa chiave la formazione di un intergruppo parlamentare tra Pd, 5Stelle e Leu, è un primo paletto per rinsaldare l’alleanza mandata a casa con una manovra di palazzo. Purché non abbia il fiato corto della tattica dei riposizionamenti, ma sia finalizzata alla costruzione di un’alternativa quando saremo chiamati al voto.
E, in questo ambito, avviare la formazione di una nuova forza di sinistra di cui siamo orfani da troppo tempo, non per responsabilità dell’ex banchiere centrale. Tanto più necessaria per far tornare al centro dell’azione politica la questione sociale quando, come dice Draghi, passata la pandemia, torneremo ad accendere la luce.
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