Editoriale

E i profughi che fine fanno?

E i profughi che fine fanno?Migranti sbarcati ad Augusta – Lapresse/Reuters

Stragi a mare Con «blocchi navali» e sola «caccia» agli scafisti si cancellano i diritti dei migranti

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 23 aprile 2015

Raramente era capitato di assistere a un così sfrontato ribaltamento della realtà, quale quello realizzato a partire dalle ore immediatamente successive al naufragio di domenica scorsa.
Da quattro giorni, l’intera questione dell’immigrazione è ridotta al suo atto ultimo, abietto e feroce.

Ovvero alla responsabilità criminale di quelli che, in un crescendo melodrammatico di retorica, sono chiamati: schiavisti, negrieri, trafficanti di carne umana.

E così, tutti si affannano intorno alla dimensione finale della tragedia, perché è la più visibile: quella che concentra la più immediata e diffusa ostilità.

E questo consente, infine, di identificare e tracciare il profilo del nuovo nemico assoluto: lo Scafista. Nessuno sembra porsi la domanda cruciale: se pure riuscissimo, d’un colpo solo, a eliminare tutti quei «mercanti di morte», avremo ridotto anche solo di qualche unità il flusso dei migranti? Avremo limitato il numero delle vittime? Avremo garantito una maggiore sicurezza a quelle disgraziate aree del mondo?

La mia risposta a questi interrogativi è un no secco. Respingere i movimenti di esseri umani al di là del Mediterraneo, «bombardando i barconi» o «sparando sugli scafisti» o attuando un «blocco navale» avrebbe il solo effetto di allontanare le vittime dal nostro sguardo. E di rimuoverle dalla nostra esperienza individuale e collettiva.

Probabilmente un sollievo per il nostro senso estetico, non più offeso da tanto orrore, e per la nostra buona coscienza, non più turbata da uno spettacolo così crudele: ma nessun vantaggio per la stabilità dell’Africa e del Medio Oriente e nemmeno per il livello di civiltà giuridica delle nostre democrazie e per la dignità della nostra identità europea. Direi, infatti, che morire nel deserto invece che nel Mediterraneo non rappresenta un passo avanti né sotto il profilo umanitario né sotto quello del controllo dei movimenti migratori e nemmeno sotto quello della normalizzazione dei rapporti con paesi così vicini alle nostre coste.

Eppure, questa elementare e inconfutabile verità sembra sfuggire a tanti, a partire dal presidente del Consiglio e dal Ministro dell’Interno. E così, quegli oltre 800 morti hanno prodotto il paradossale effetto di cancellare tutte le cause, lontane e vicine, le motivazioni antiche così come quelle congiunturali, che inducono milioni di persone a fuggire dal proprio paese d’origine. Tutto ciò sembra rimosso e l’intero discorso pubblico si focalizza sulle strategie di controllo e repressione della macchina criminale che trasforma una gigantesca tragedia umana in un affare economico.

Ora, reprimere il traffico di esseri umani è un’azione necessaria e indifferibile, da attuare con la massima severità, ma che rischia di rivelarsi clamorosamente insufficiente. Che ne sarebbe, infatti, di quelle centinaia di migliaia di persone che si rivolgono ai trafficanti per trovare una via di fuga e un’opportunità di vita, se non adottassimo strategie legali e sicure per garantire loro una via di salvezza? Quelle strategie legali e sicure sono alla nostra portata. Difficili, difficilissime, ostacolate da massicce resistenze politiche, e tuttavia le uniche ragionevoli, concrete e praticabili.
Innanzitutto va ripristinata, e nel più breve tempo possibile, la missione Mare Nostrum, con quelle stesse responsabilità e con quelle stesse competenze, come iniziativa di dimensione europea; e, dunque, con il coinvolgimento – in risorse economiche, uomini e mezzi – di tutti i paesi membri. Un’operazione che, come quella svolta in precedenza dalla Marina italiana, dovrebbe perseguire tre compiti essenziali: interventi di soccorso e salvataggio; azioni di filtro sanitario e di sicurezza, realizzate già a bordo; misure di contrasto del traffico di esseri umani, a partire dal sequestro delle navi madre, dalla distruzione dei barconi intercettati.

È necessario, inoltre, rimuovere tutti gli ostacoli di natura esclusivamente politica che impediscono all’Europa di garantire protezione ai profughi, senza che questi siano costretti a rischiare la vita nel Mediterraneo e a ricorrere ai trafficanti di morte. In altre parole si deve realizzare, in tempi rapidi, un piano di «ammissione umanitaria», che preveda l’anticipazione della richiesta di asilo già nei paesi in cui si addensano e transitano i flussi migratori.

Si tratta di istituire in quei paesi – laddove è possibile e dove già qualcosa in questo senso è in atto come in Giordania, Libano, Egitto e nel Maghreb – un sistema di presidi realizzato dalla rete diplomatico consolare dei paesi dell’Unione e del Servizio europeo per l’azione esterna, insieme a UNHCR e alle altre organizzazioni umanitarie internazionali.

Qui i profughi potrebbero essere accolti temporaneamente per poi essere trasferiti con mezzi legali e sicuri nel paese europeo in cui chiedono asilo, secondo quote di accoglienza concordate tra gli stati membri. Un piano da affiancare e combinare ad altre proposte allo stesso modo concrete e praticabili, quali il reinsediamento, l’ingresso protetto e i corridoi umanitari. Tutto ciò è terribilmente arduo e richiede una vera e propria lotta politica a livello europeo. Ma è la sola alternativa a un’ecatombe senza fine.

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