Fiscal compact, un’altra strada è l’iniziativa popolare
Vorrei avanzare alcune perplessità in merito al referendum sull’equilibrio di bilancio. Viene presentato – anche da questo giornale – come un modo per opporsi al Fiscal compact. A me non […]
Vorrei avanzare alcune perplessità in merito al referendum sull’equilibrio di bilancio. Viene presentato – anche da questo giornale – come un modo per opporsi al Fiscal compact. A me non […]
Vorrei avanzare alcune perplessità in merito al referendum sull’equilibrio di bilancio. Viene presentato – anche da questo giornale – come un modo per opporsi al Fiscal compact. A me non sembra. Si vogliono infatti abrogare solo le disposizioni contenute nella legge 243 del 2012 che dettano ulteriori limitazioni rispetto a quelle definite in sede europea e recepite nel nostro ordinamento “a livello costituzionale”. Non tocca (ne potrebbe mediante lo strumento de referendum) i principi introdotti nel 2012 in costituzione.
Né le altre parti della legge di attuazione che definiscono il sistema dei vincoli per il conseguimento dell’equilibrio. Scopo del referendum è, in effetti, quello di continuare a rispettare gli obblighi europei in materia di bilancio pubblico, ma si richiede che ciò avvenga in modo corretto, senza eccessive rigidità. In linea con la battaglia del Governo in Europa, la proposta è quella di una maggiore moderazione nell’applicazione di misure che – nel rispetto dei trattati e degli accordi europei di rientro del debito – permettano un’ “austerità flessibile”.
Vi è un argomento che potrebbe farsi valere per smentire – almeno in parte – la prospettiva moderata che ho richiamato. L’istituto del referendum contiene in sé un “plusvalore di senso” che tende a trascendere il significato letterale del quesito su cui si è chiamati a votare. Così è stato per il nucleare ovvero per l’acqua. Se la portata dell’abrogazione in fondo era assai limitata e riguardava solo una normativa di contorno, l’esito positivo del responso popolare ha assunto una portata generale: contro ogni politica filonucleare (per l’acqua la vicenda post referendum è più complicata).
Ciò è vero, ma è anche da tener presente che allora era chiara la posta in gioco e univoco lo spirito dei proponenti. Nel nostro caso non è così. Tra gli stessi promotori operano più che legittimamente e con il massimo della coerenza esponenti che si ripromettono di far valere semplicemente un equilibrio flessibile entro le compatibilità date in sede europea. Una eventuale vittoria referendaria sarà legittimamente figlia di un liberalismo dal volto umano, rischiando di fornire una definitiva legittimazione democratica alle attuali politiche europee. Forse un aiuto a Francia e Italia nella dialettica con la Germania, ma nulla di più. È questo ciò che si vuole?
Per senso di realismo (meglio poco che niente) può anche accettarsi una simile prospettiva, ma deve essere chiaro che in tal modo si rinuncia a cambiare l’orizzonte delle compatibilità economiche e politiche. Un’altra Europa e un’altra Italia – se vogliamo dare un senso profondo alle parole –possono nascere solo se si è in grado di ridiscutere i trattati e i vincoli economici, solo se si è in grado di proporre una strategia in cui si affermi la centralità dei diritti delle persone, solo se – in Italia – si riesce ad modificare il principio di equilibrio imposto nel 2012 da un superficiale e irruento legislatore che ha distorto gli equilibri costituzionali con la modifica dell’articolo 81.
Si comprende la sensibilità della sinistra radicale al referendum. È tramite questo strumento di partecipazione che si sono ottenute la più significative vittorie politiche e costituzionali. Il referendum del 2006 che ha sconfitto il tentativo di riscrivere in senso autoritario la nostra costituzione; quello del 2011 che ha visto affermarsi un’altra idea di sviluppo con la vittoria dell’acqua bene comune. Ma non credo che questo possa indurre a sostenere ogni richiesta al di là del merito. Anche perché temo che il rischio di deludere le aspettative sia più vicino di quanto non possa sembrare.
Ritengo infatti che i quesiti proposti siano ad alto rischio di inammissibilità. Temo cioè che non possano passare il vaglio della Consulta. Sono diverse le ragioni che mi inducono a formulare questa previsione. Alla luce della giurisprudenza costituzionale ritengo che si sia correttamente provveduto a disinnescare il rischio di una pronuncia di inammissibilità per violazione di un obbligo europeo (ed in effetti i quesiti non pongono in discussione alcun vincolo comunitario), più difficile convincere la Corte costituzionale che le norme che si vogliono abrogare non rientrino tra quelle tributarie e di bilancio che sono espressamente escluse dal referendum (soprattutto dopo l’allargamento concettuale definito con la sentenza n. 2 del 1994) ovvero che la legge 234 del 2012 che si sottopone a referendum non rientri tra quelle escluse dal referendum perché “a forza passiva peculiare”. In quest’ultimo caso la giurisprudenza costituzionale (secondo quanto deciso – in modo un po’ generico, in verità – dalla sentenza 16 del 1978) sembrerebbe voler escludere tutte quelle leggi approvate con un procedimento speciale. E la legge di attuazione dell’articolo 81 deve essere approvata con maggioranza qualificata.
Bisogna allora arrendersi al Fiscal compact? Non credo. Ci sono altri strumenti di partecipazione previsti dal nostro ordinamento costituzionale. L’iniziativa legislativa popolare è uno di questi. Essa potrebbe anche affiancarsi al referendum richiesto per segnalare una rotta diversa in grado di imprimere un reale cambiamento nelle politiche economiche e di rispetto dei diritti costituzionali. È possibile anche immaginare la presentazione di una legge costituzionale assieme ad una ordinaria d’iniziativa popolare che riescano l’una ad “aggredire” il principio dell’equilibrio finanziario posto in costituzione l’altra a interpretare in modo conforme al sistema costituzionale (all’obbligo costituzionale di assicurare i diritti fondamentali) i vincoli di bilancio “di natura permanente” che l’Europa ci impone. C’è dunque la possibilità di proporre un cambiamento anziché subire o cercare di arginare quello che proviene dalle attuali culture dominanti.
L’iniziativa popolare è uno strumento debole? Può ben essere, ma qui si entra nel campo della politica: se non si ha la forza di far sentire la propria voce e la capacità di utilizzare questi strumenti per mobilitare il popolo di sinistra su obiettivi largamente condivisi non c’è tecnicalità che possa supplire al vuoto.
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