Manovra chiara
Legge di stabilità L’ottimismo dell’esecutivo si basa sui numeri ballerini di alcuni capitoli
Legge di stabilità L’ottimismo dell’esecutivo si basa sui numeri ballerini di alcuni capitoli
Già lo aveva detto Mario Draghi qualche settimana fa: «La sola politica monetaria non basta di fronte alla gravità della crisi». Poi aveva aggiunto che ci vogliono riforme profonde per rilanciare la crescita. Questa seconda parte dell’affermazione è stata giustamente letta come una ulteriore pesante intromissione della Bce nell’ambito delle scelte di politica economica dei singoli paesi e, nel caso nostro, come una mano d’aiuto al governo Renzi impegnato a distruggere ciò che resta del diritto del lavoro.
Così è rimasta un poco in ombra la prima parte dell’asserto draghiano. Forse persino il premio Nobel a Jean Tirole pare esserne una conseguenza.
Lo studioso francese è stato premiato per i suoi lavori sui modi di imbragare i mercati dove ci sono posizioni dominanti, senza metterne in discussione le fondamenta e, per quanto riguarda il mercato del lavoro, la stessa Voce.info si è compiaciuta di sottolineare le affinità tra la propria proposta (rapporto di lavoro a tutele crescenti) e le affermazioni di Tirole. Più o meno come la slabbrata legge delega su cui, con un evidente strappo costituzionale, il governo Renzi ha posto la questione di fiducia al Senato.
La chiave di volta per interpretare il senso, se ce ne è uno, della nuova legge di stabilità sta dunque nella “sfida” lanciata da Renzi agli industriali quando li ha ammoniti a non avanzare più alibi e a procedere ad assunzioni che rendano meno crude le cifre della disoccupazione, in particolare tra i giovani. Squinzi ha capovolto la sfida in un assist, con l’enfatica dichiarazione che solo Renzi realizza i sogni della imprenditoria italiana.
Non si può e non si deve leggere la legge di stabilità se non in stretta connessione con il Jobs Act. Renzi spiana il diritto del lavoro per creare quello che una volta si chiamava un “prato verde” per l’imprenditoria nostrana ed estera (particolarmente attivi i cinesi, con predilezione per le telecomunicazioni e l’energia).
La nota di aggiornamento al Def ha capovolto l’ottimismo di facciata renziano. Gli uffici del ministero dell’economia non potevano non riconoscere la recessione, anzi la depressione che attanaglia il paese. Tuttavia il documento governativo continua a peccare di ottimismo, come la stessa Banca d’Italia ha rilevato sulle possibilità di copertura delle misure previste. Chi ci assicura che realmente si ottengano successi contro l’evasione fiscale? Intanto assistiamo a nuovi traslochi di capitali all’estero. Chi ci dice che siano esatti i calcoli sul minore peso del costo degli interessi sul debito, visto che la questione è in gran parte al di fuori delle nostre mani, dipendendo dal quadro monetario internazionale? Qualcuno è così temerario da fondare progetti seri sui risparmi che deriverebbero dalla spending review, dopo il cambio della guardia e la varietà di cifre che ci sono state fin qui prospettate? Il margine sul deficit, 11,5 miliardi, portato così al 2,9%, due decimali prima dell’abisso, sarà sufficiente ad abbassare le tasse e a rilanciare la crescita (quale?), peraltro senza uno straccio di piano industriale che non sia quello puramente negativo delle privatizzazioni? Persino il cauto Sole24Ore titolava l’editoriale di ieri come se fosse un social network: «Obiettivo crescita: se non ora quando?».
Legge di stabilità elettorale, dunque? C’è di più. A parte la totale incertezza sulla durata della legislatura e dello stesso varo della nuova legge elettorale, mi pare che il disegno di Renzi sia più ambizioso e pericoloso. Da un lato in Europa non sfonda il tetto del 3%, ma si dichiara solidale coi francesi, punzecchia la Commissione evitando però di esporsi platealmente al rischio di bocciature integrali della manovra.
Dall’altro rinsalda i legami con la Confindustria e si rivolge ai cittadini attivi bypassando ogni mediazione sia politica che sindacale. Praticando quindi, e cercando di consolidare, una sorta di populismo del consenso. Qualcosa di più del populismo dall’alto che abbiamo storicamente conosciuto, qualcosa di molto meno della costruzione di un blocco sociale. Un disegno fragile, che vive solo della pochezza dei suoi oppositori, ma pur sempre un disegno politico.
Sarà la manifestazione del 25 ottobre e lo sciopero generale che (forse) seguirà, con l’articolazione a tutti i settori, in primo luogo quello del precariato, a potere spezzare questa trama che altrimenti ci avvolgerà per molto tempo a venire.
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