I «biscotti» avvelenati della rete
Editoriale

I «biscotti» avvelenati della rete

Il centro per i big data alla Guizhou Shuanglong Airport Economic Zone nella Cina sudoccidentale, 2017 – Ou Dongqu /Xinhua

Privacy, cookie e big data Facciamo un esperimento: vediamo come funzionerebbero nel mondo reale le regole che tutti accettiamo senza pensarci sul Web. E scopriamo perché «ilmanifesto.it» è differente

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 28 giugno 2019

Facciamo un esperimento.

Immaginate di uscire di casa e di avere alle spalle ogni volta una ventina di tizi mascherati che vi seguono ovunque e prendono nota di tutto quello che fate, di quali vetrine guardate e per quanto tempo, del tragitto che fate.

Immaginate di indossare un paio di occhiali che trasmettono in tempo reale a una società sconosciuta delle isole Vergini tutto quello che vedete, fate o scrivete.

Immaginate che tutti i vostri messaggini e telefonate siano catalogati da un tizio irlandese che può dire a chiunque con chi avete parlato e per quanto tempo. Magari pure cosa vi siete detti.

Immaginate che tutte le vostre foto siano raccolte in faldoni infiniti da funzionari del Nevada. E che davanti casa vostra ci sia un vigile gentilissimo, che vi dà ogni informazione che vi serve ogni volta che vi serve. Peccato che scriva su un quaderno il dettaglio di ogni vostra domanda.

Immaginate di vedere in ufficio un tabellone con le vostre date di ovulazione, i km che avete fatto a piedi o tutte le cose che avete comprato nell’ultimo mese.

Immaginate di avere in salotto una simpatica signora yankee che ascolta tutto quello che dite, la musica che sentite o i film che guardate e ne prende nota diligentemente.

Tutte queste situazioni, se pensate nella vita reale, terrena, sarebbero intollerabili. Neanche nella peggiore delle dittature accetteremmo di vivere così, braccati e registrati 24 ore su 24.

Su Internet, invece, questa è la pura normalità. Funziona esattamente così.

LA GUERRA MONDIALE PER I DATI

Ciascuno di noi navigando sul Web accetta di trasmettere e far archiviare in tempo reale a società sconosciute tutto quello che fa.

Accetta di scaricare sul proprio computer piccoli pezzetti di codice («cookie» o altro) che registrano tutto quello che facciamo e che vediamo. Che interpretano i nostri desideri e problemi e li mettono in relazione con quelli di miliardi di altre persone osservate anche loro h24.

In questo modo Internet da universo di libertà si sta trasformando in una distopia dove la videosorveglianza è la normalità e la riservatezza la peggiore delle trasgressioni.

Le piattaforme stanno costruendo uno zoo da cui è impossibile uscire. E gli animali siamo noi.

Internet da universo di libertà si sta trasformando in una distopia dove la videosorveglianza è la normalità e la riservatezza la peggiore delle trasgressioni

E adesso veniamo al punto.

Non ce ne accorgiamo ma la prima guerra mondiale per il controllo delle nostre identità digitali è in atto. I nostri alter ego in Rete combattono notte e giorno una battaglia che da soli non possono vincere.

Non è Matrix o una puntata di Black Mirror. È il mondo in cui viviamo. La Rete non vuole la nostra fuga.

Anzi, novella Biancaneve, si traveste da matrigna benevola che moltiplica i nostri sogni e le nostre conoscenze. Ma raramente ci presenta il conto. È come un amico che al ristorante paga sempre lui.

È UN MERCATO TRUCCATO

Big data e privacy sono i temi di questo secolo. Lo sappiamo tutti: cerchiamo una vacanza in Sardegna su Google e tre secondi dopo su qualsiasi sito web italiano o straniero vediamo una pubblicità di traghetti per l’isola o il resort tal dei tali.

Ma questo mercimonio delle nostre identità digitali è davvero utile? Serve veramente a finanziare le attività in Rete? La pubblicità on line salva l’informazione indipendente da aziende o governi?

Barlumi di coscienza si fanno avanti. Il primo studio scientifico sull’efficacia dei cosiddetti «cookie di profilazione» (per i quali diamo o non diamo il consenso nel 99% dei siti internet europei) dimostra che sono una grande bufala. Forse la bufala più grande della storia della comunicazione.

Secondo una ricerca congiunta dell’università del Minnesota, dell’università della California e della Carnegie Mellon University, i siti di informazione che ospitano pubblicità profilata guadagnano solo il 4% in più di quelli che ospitano pubblicità generica senza «cookie» specifici.

Questo studio, per la prima volta, è riuscito a tracciare milioni di transazioni pubblicitarie di una grande azienda americana per una settimana. E ha dimostrato, in breve, che gli editori vendono al «mercato» i propri lettori per un pugno di mosche.

E mentre i fatturati della pubblicità on line crescono a due cifre, le aziende pagano anche il triplo (268%) per avere un annuncio sul Web mirato e non generico.

Ma chi ci guadagna da questo sistema? A chi vanno i soldi degli inserzionisti?

Nel 2018 (dati eMarketer) il 58% dell’intero mercato pubblicitario digitale americano è in mano a due sole aziende: Google e Facebook (se aggiungessimo anche Amazon il dato esploderebbe). Mentre negli ultimi tre anni i ricavi pubblicitari digitali degli editori sono diminuiti mediamente del 40% (dati Econsultancy) e i tagli alle redazioni e al prodotto giornalistico sono stati draconiani in tutto l’Occidente.

Chi ci guadagna dunque sono gli intermediari e le agenzie pubblicitarie, che per gli annunci «personalizzati» si prendono fino al 60% degli investimenti delle aziende (dati della società Warc citati dal Wall Street Journal).

«Il valore commerciale della profilazione pubblicitaria dei lettori è stato completamente sovrastimato fin dalla sua invenzione»Michael Zimbalist

Il mercato pubblicitario digitale insomma è un gigante bulimico, opaco e bizzarro, dove i primi e gli ultimi della catena (siti web e lettori) perdono tutto senza guadagnarci nulla. Dove le aziende per comparire spendono sempre di più (con un’efficienza tutta da dimostrare) e dove due colossi lasciano briciole a centinaia di aziendine che si prendono i nostri dati e li vendono per pochi spiccioli al primo che capita.

Secondo Michael Zimbalist, responsabile dell’innovazione del Philadelphia Media Network (un ex del New York Times), «il valore commerciale della profilazione pubblicitaria dei lettori è stato completamente sovrastimato fin dalla sua invenzione». Una bufala insomma.

COME RESISTERE

Resistere a tutto questo non è impossibile ma è molto difficile.

Dopo il regolamento europeo GDPR sui dati personali, la California ha fatto una propria legge sulla privacy e ora la palla passa al governo federale americano, che non può ipotizzare 50 leggi diverse in tutti gli stati. La Silicon Valley trema. Per la prima volta è in una posizione di apparente debolezza.

Ma questo dibattito non può rimanere tra gli addetti ai lavori o affidato ai politici (spesso compromessi l’uno con l’altro).

Là fuori per i nostri alter ego digitali la guerra è reale. E aiutarli a liberarsi tocca a noi.

Ci sono degli antidoti, piccoli trucchi, accortezze, squallidi sotterfugi e buchi nel sistema.

Ma richiedono impegno.

Ciascuno di noi, singolarmente, può scaricare software che impediscono il tracciamento on line, usare diversi motori di ricerca e browser diversi su diversi dispositivi, spegnere gli assistenti vocali e diminuire il più possibile la geolocalizzazione dei telefoni.

Possiamo dire «no» in ogni form e “quadratino” ogni volta che è possibile. Non usare app e programmi inaffidabili. Ma non possiamo svuotare il mare con tanti cucchiaini. Abbiamo il dovere di cambiare il sistema.

LA SCELTA DEL MANIFESTO

Noi su ilmanifesto.it abbiamo fatto scelte molto precise. E molto costose.

Per esempio non c’è la pubblicità. Né profilata né generica. Nulla in contrario in via generale ma finché la pubblicità on line sarà questa, preferiamo mettere al riparo noi e i nostri lettori da tracciamenti e profilazioni non necessari e che non fanno «guadagnare» né noi né loro.

Sul sito del manifesto ci siete solo voi e i nostri articoli.

Nessuno vi spia e cataloga quello che leggete per quanto tempo.

Il sito è stato tra i primi in Italia, più di cinque anni fa, a essere criptato quasi come quello di una banca, in modo che nel transito tra il vostro computer e i nostri server nessuno possa intromettersi facilmente.

La vostra privacy per noi è talmente importante che non abbiamo nemmeno messo le icone di condivisione di Facebook o twitter ma dei pulsanti bianchi quasi invisibili.

Anche le icone dei social vi tracciano: che siate iscritti a Facebook o no, Facebook sa che avete visitato quella pagina.

Sul sito del manifesto ci siete solo voi e i nostri articoli

Tutti i nostri server sono fisicamente nell’Unione europea in modo da essere protetti secondo le nostre leggi e, per scrupolo in caso di Brexit, anche quelli in Inghilterra sono stati spostati da tempo all’interno dell’Ue.

Più di 260mila persone si sono registrate sul nostro sito per poterci leggere gratuitamente fino alla soglia del paywall (8 articoli gratis al mese più gli editoriali sempre gratis).

Di voi conosciamo il minor numero di dati possibile (solo quelli necessari per legge o per potervi fornire l’abbonamento) e sfidiamo uno solo degli iscritti a dire pubblicamente se ha mai ricevuto una mail di spam o superflua da parte nostra.

Nessuno di voi è profilato.

Semplicemente, c’è un contatore del numero di articoli (ma non sappiamo quali né per quanto tempo).

Del nostro sito in breve puoi fidarti non solo per la qualità del nostro giornalismo ma anche per come cerchiamo di offrirtelo.

Lo stesso vale per la campagna su iorompo.it, che è collegata al sito principale e per questo può mostrarvi alcuni passaggi burocratici fastidiosi prima di giocare e abbonarvi. Ma servono proprio per rispettare la vostra privacy e trattare i dati in modo scrupoloso.

Senza pubblicità e senza profilazione, le nostre possibilità di marketing e i nostri ricavi digitali si riducono a quello che voi siete disposti a dirci e a pagare.

Ci siamo volontariamente legati le mani da soli per metterci solo nelle vostre mani

Ci siamo volontariamente legati le mani da soli per metterci solo nelle vostre mani. Per esempio, non possiamo fare una campagna abbonamenti mirata ai navigatori più fedeli, ai più giovani, a chi è interessato a un argomento piuttosto che a un altro. O meglio, possiamo farlo all’antica, senza usare milioni di informazioni e tracciarvi in ogni dove.

Possiamo farle se vi fidate di noi, se ci raccontate cosa vorreste, se siamo bravi a capirlo anche quando non ce lo dite.

Intendiamoci bene: non tutti i «cookie» vengono per nuocere. Sul nostro sito ci sono dei «cookie», spesso di terze parti. Ma sono sempre tecnici e anonimi. Vi aiutano a memorizzare la password senza doverla ridigitare. Ci aiutano a contarvi e a sapere quanti siete (non chi siete però).

Vi forniscono le font digitali (i caratteri) che abbiamo scelto e non quelle generiche. Ci aiutano a gestire i form con le vostre richieste, i vostri commenti, i vostri pagamenti, le email automatiche (quelle di benvenuto, di recupero password, di scadenza dell’abbonamento, etc.). Sono insomma strumenti di funzionamento, non strumenti commerciali.

Questo modello di giornalismo dipende solo da voi

Il manifesto digitale in definitiva dipende solo da voi. Di più: questo modello di giornalismo dipende solo da voi.

Abbiamo deciso di rompere con un certo tipo di informazione. E vogliamo rompere ancora di più. Con la campagna #iorompo vogliamo dimostrare che la guerra per il controllo della Rete può essere vinta.

Quel muro del controllo permanente, delle opacità, delle false notizie, di numeri sempre più grandi che non significano nulla può essere abbattuto.

Ma ci servono alleati. E ne servono tanti. Il biglietto per la libertà costa un milione e duecentomila euro.

È un conto che va pagato, se non vogliamo che qualcun’altro lo paghi per noi.

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