I conti con la storia
Nessuno potrà più nascondersi dietro la sua ombra. Mandela ormai appartiene alla storia e alla memoria. Ovviamente il Sudafrica non ha realizzato tutto quello che il movimento di emancipazione dal […]
Nessuno potrà più nascondersi dietro la sua ombra. Mandela ormai appartiene alla storia e alla memoria. Ovviamente il Sudafrica non ha realizzato tutto quello che il movimento di emancipazione dal […]
Nessuno potrà più nascondersi dietro la sua ombra. Mandela ormai appartiene alla storia e alla memoria. Ovviamente il Sudafrica non ha realizzato tutto quello che il movimento di emancipazione dal razzismo aveva promesso agli oppressi. L’apartheid era un sistema di dominio a livello di diritti individuali, di classe e di nazione (la nazione nera), oltre che di razza.
Mandela diede la precedenza, fra tutti i valori possibili, alla dignità: un bene che poteva accomunare bianchi e neri. I bianchi ritrovavano un po’ dell’onore perduto.
Dopo tutto, gli Afrikaner, come volevano ora essere chiamati i boeri, avevano un trascorso di resistenti all’imperialismo britannico che lo stesso Mandela aveva ricordato a P. W. Botha in uno dei loro incontri segreti. Di quella prima fase di colloqui fra l’ergastolano e il penultimo presidente bianco del Sudafrica si saprà solo dopo il 1990, l’anno del drammatico discorso in cui F. W. De Klerk dichiarò la fine della guerra (contro il popolo) e annunciò il prossimo rilascio dei prigionieri politici con l’immediata legalizzazione dei partiti anti-apartheid. Quanto ai neri, gli africani, la dignità non aveva prezzo dopo le umiliazioni di un regime che aveva tolto loro la stessa «umanità».
L’investitura
De Klerk rispondeva a principi e a interessi. Il Partito nazionale, che aveva elaborato un mostro per non condividere con la popolazione africana il potere, le risorse e in ultima analisi la vita, non tentò di dividere il fronte contro il razzismo quando si trattò di smontare quella macchina infernale. L’investitura di Mandela era iscritta nella storia dell’African National Congress e trovava una specie di sanzione in quell’entità di difficile definizione che è l’opinione pubblica mondiale.
Negli anni in cui Mandela era il più famoso prigioniero politico del mondo, il mondo aveva una dimensione che dava spazio a sentimenti, ideali e progetti attraverso le frontiere anche senza bisogno di Internet. Mandela non fece una scelta fra il Sudafrica e il mondo perché sembrava scontato che il flusso, reciproco e nei due sensi, non conoscesse barriere.
I bianchi avevano giustificato la segregazione dicendo che in un futuro prossimo gli Stati Uniti e l’Europa avrebbero capito che l’apartheid non era un residuato del passato ma un’anticipazione del futuro.
Sotto molti aspetti, il riscatto, che era insieme politico e morale, fu un anti-climax per le battaglie che ripetevano e riflettevano a livello mondiale il dramma sudafricano.
Nel 2001, pochi giorni prima delle Twin Towers, fallì a Durban una Conferenza dell’Onu sul razzismo perché Stati Uniti e Israele ebbero paura delle parole e decisero di ritirarsi prima delle votazioni finali. Non dovrebbe essere lecito a nessuno, oggi come ieri, salvarsi con un po’ di retorica su una vicenda che ha fatto toccare il fondo dell’abominio alla civiltà in cui si sintetizza la storia dell’Europa nei suoi rapporti con la non-Europa prima che diventasse l’anti-Europa. Si dice che Obama non sarebbe alla Casa Bianca se non ci fosse stato Mandela (e Martin Luther King), ma forse la lezione non è andata a buon fine.
Il primo nero presidente
A differenza di altre realtà in America e in Oceania, gli «indigeni» del Sudafrica, pur soggiogati a vario titolo da olandesi e inglesi, invasi, privati delle terre, mortificati e denegati, non furono annientati, non scomparvero dal paesaggio e dalla scena politica.
Meno di un secolo dopo la guerra anglo-boera, che aveva regolato le pendenze fra i due diversi sistemi coloniali, nella quale i neri avevano svolto la parte di ostaggi non-protagonisti (i pochi diritti che godevano nella colonia del Capo furono sacrificati alla pacificazione fra inglesi e repubbliche boere), un nero entrava da presidente, eletto e acclamato dal suo popolo, nell’Union Buildings di Pretoria, la città che tramanda il nome di un pioniere del Grande Trek degli anni Trenta del XIX secolo.
La vittoria era riassunta in quelle figure di uomini alti, severi, dignitosi che uscivano da un carcere della stessa Pretoria l’11 febbraio del 1990. Di Nelson Mandela si erano perse le tracce visive dai giorni del processo, quasi trent’anni prima, ma tutti furono in grado di riconoscerlo anche se disponevano solo della vecchia foto in cui aveva ancora tanti capelli nerissimi.
Il linguaggio di occhi e mani
Il linguaggio di Mandela e dei suoi compagni era tutto nei loro occhi e nelle loro mani (o nel pugno chiuso di Winnie, sul punto di essere scavalcata dall’evento).
I vinti erano i vincitori. Mandela non accettava che la «guerra», che non erano stati gli africani a volere, avesse dei vinti in quell’ora fatale, nemmeno fra i bianchi.
Mandela era stato molto chiaro sin dall’inizio con Botha: non voleva parlare di sé, della sua libertà o della sua promozione a interlocutore. Si doveva avere presente solamente il popolo.
Certo, fra il temuto massacro e l’apoteosi della giustizia il cammino era lungo e probabilmente non sarebbe mai stato colmato.
Mandela non approfittò del potere virtualmente illimitato che l’avrebbe autorizzato a compiere una rivoluzione in tutti i sensi. Il popolo, unificato, perché questo era il significato profondo della svolta che si stava consumando, poteva non essere pronto.
Anche la Commissione per la verità e la riconciliazione – non un’amnistia come qualche volta si dice ma una confessione liberatoria davanti alle vittime e alla comunità che da sola esauriva la pena – rientra in quella volontà di superare tutte le mediazioni. De Klerk disse nel suo discorso che sarebbero iniziati negoziati senza condizioni. Per Mandela tuttavia una condizione c’era: il ripudio del razzismo.
La «decolonizzazione» interna
Il Ghana di Nkrumah era stato il primo stato a sud del Sahara a raggiungere l’indipendenza. Il Sudafrica era l’ultimo a compiere, a suo modo, il percorso della «decolonizzazione». In questo caso non c’era un distacco.
Nessuno lasciava il paese portandosi dietro la bandiera appena ammainata. I bianchi erano lì per restare. Mandela, il cui prestigio derivava non solo dalle sue sofferenze personali ma dalle modalità in cui era stata sconfitta l’apartheid, voleva che essere l’artefice della libertà dell’ultima parte di Africa diventasse un vantaggio e servisse al Sudafrica per interiorizzare l’esperienza maturata dall’Africa in quei 30 o 40 anni di indipendenza. Secondo qualcuno, Mandela avrebbe pensato troppo al mondo esterno quando governava il Sudafrica.
Sapendo di essere troppo vecchio, Mandela decise di non rimanere a lungo al potere. Aveva convissuto con la morte fin da giovane, almeno dagli anni Sessanta, quando il processo poteva chiudersi con la pena capitale, e sapeva guardare oltre la sua persona. Ma era destinato a non avere eredi. Nel 1999 ricusò la rielezione. Non si ritirò dalla politica ma non interferì anche se tutti pensavano a lui nei passaggi cruciali. Nelle due successioni, a Thabo Mbeki e nel 2009 a Jacob Zuma, uno zulu, a togliere l’ultimo dubbio che in fondo l’Anc fosse solo il partito dei xhosa, si sarebbe misurata la tremenda complessità della transizione.
La forza del Sudafrica divenne una debolezza, perché senza Mandela l’egemonia suscitava diffidenza. Una bella responsabilità aspetta i dirigenti e il popolo del Sudafrica adesso che la luce si è spenta del tutto.
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