Editoriale

I ladri di polli leghisti e la matrice pubblica della corruzione

I ladri di polli leghisti e la matrice pubblica della corruzione

Corruzione La bagarre sui politici che hanno preso il bonus di 600 euro, tra i quali si distinguono ovviamente i leghisti, rischia di far dimenticare colpevoli ben più importanti e oscurare il carattere strutturale della corruzione nel tardo capitalismo

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 19 agosto 2020

Avremo un’Italia più pulita, più giusta, più credibile quando sapremo i nomi di tutti i parlamentari e i consiglieri regionali che hanno chiesto e ottenuto il bonus da 600 euro destinato alle partite Iva in difficoltà? C’è da dubitarne. La caccia ai ladri di polli, tra i quali si distinguono ovviamente i leghisti, rischia di far dimenticare colpevoli ben più importanti e oscurare il carattere strutturale della corruzione nel tardo capitalismo.

Prima di tutto ci serve una definizione di corruzione più ampia di quella normalmente usata: al di là della sua definizione nel codice penale occorre prendere in considerazione il sistematico tradimento della fiducia e della moralità pubblica nel perseguimento del successo e dell’arricchimento personale o istituzionale. In questo senso, la possibilità di piccoli e grandi guadagni materiali per il singolo dipende agli attuali rapporti tra economia e politica.

Il miglior esempio è Donald Trump: i suoi guadagni sono sempre avvenuti in settori fortemente regolati dalle autorità, come l’edilizia o l’industria dei casinò. Sono attività dove concessioni, licenze, autorizzazioni sono determinanti nel successo o nel fallimento di un’impresa. Trump non ha inventato il microchip, né il personal computer, né lo smart phone: ha invece perfezionato modi per arricchirsi (peraltro non si sa se i suoi miliardi siano reali o fittizi, un’immensa facciata di cartapesta dietro la quale stanno solo debiti verso le banche) grazie ai suoi rapporti legali e illegali con la politica di New York.

Il suo precursore italiano Silvio Berlusconi, come ben si sa entrato in politica per difendere le sue reti televisive, è perfettamente riuscito nel suo intento ed è sopravvissuto perfino a una condanna definitiva per evasione fiscale, la stessa sorte che attende Trump quando lascerà la Casa Bianca. Ma esaminiamo più da vicino un caso italiano di ben altre dimensioni rispetto allo scandalo dei bonus, quello delle dighe mobili a difesa della laguna di Venezia, il cosiddetto Mose, su cui il governo ha avviato proprio in questi giorni una procedura per completare le opere e mettere in funzione le paratie.

Giovanni Benzoni e Salvatore Scaglione hanno pubblicato recentemente una preziosa ricostruzione del sistema di potere e di corruzione cresciuto attorno al progetto in oltre mezzo secolo (Sotto il segno del Mose. Venezia 1966-2020, La Toletta edizioni). Dal loro libro emerge che, fin dall’inizio, il Consorzio Venezia Nuova, appaltatore unico dell’opera, era sostanzialmente un’organizzazione a delinquere, la cui forza risiedeva nella capacità di corrompere chiunque potesse rallentare, ostacolare, o anche solo criticare il progetto.

Quindi metteva a libro paga politici e funzionari per assicurarsi che il flusso di denaro continuasse senza intoppi: da Giancarlo Galan, presidente della Regione veneto e ministro, a Patrizio Cuccioletta, ex presidente del Magistrato alle acque di Venezia, da Emilio Spaziante, ex generale della Guardia di Finanza, a Renato Chisso, assessore ai Trasporti del Veneto. Nessuno di costoro è finito in carcere. Tutte le pene detentive sono state sospese e lo Stato si è accontentato di confiscare una parte del maltolto: 2,6 milioni a Galan, 750.000 euro a Cuccioletta, 500.000 euro a Spaziante e 2 milioni a Chisso.

Il problema con le ricostruzioni giudiziarie delle vicende di corruzione, siano infime come i bonus dei deputati leghisti o assai lucrose e durevoli come nel caso di Venezia, è che non spiegano le origini profonde della corruzione, che è un fenomeno sistemico, non individuale. Come diceva un celebre gangster americano, lui rapinava le banche “perché i soldi stanno lì” e, nel caso degli stati moderni, i soldi stanno proprio lì, in quel 40-55% del prodotto interno lordo che costituito dalla spesa statale (dati Ocse 2019).

È più facile impadronirsi di una fetta degli stanziamenti per i camici destinati agli ospedali che progettare e commercializzare un nuovo camice adatto alla protezione contro il Covid-19. È più facile “privatizzare” beni pubblici esistenti che crearne di nuovi, come gli oligarchi russi hanno ampiamente dimostrato. Tutto questo era vero prima che l’epidemia facesse esplodere la spesa pubblica, quindi è prevedibile che la percentuale del Pil in qualche modo transitata per lo Stato nei prossimi anni risulterà ancora superiore.

Le Autorità anticorruzione e gli scandali di Ferragosto cambieranno ben poco finché resterà valida l’intuizione di Brecht che fondare una banca è assai più profittevole che rapinare una banca. Come rileva il sociologo tedesco Wolfgang Streeck nel suo libro How Will Capitalism End?, la corruzione sistemica genera però una demoralizzazione di massa e una delegittimazione del sistema politico che, a loro volta, producono nuovi comportamenti corruttivi, apatia politica e la tentazione di cercare soluzioni autoritarie. Il pericolo per la democrazia viene da qui.

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