Editoriale

I lumi spenti dell’Occidente

I lumi spenti dell’OccidenteUn frammento del video che mostra il kommando uccidere un poliziotto ferito a terra per le vie di Parigi – Reuters

Alla base dei fatti di Parigi c’è una profonda frattura culturale: da un lato il massimo valore islamico, la religione, dall’altro il massimo valore illuminista: la libertà d’espressione. Se l’11 […]

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 8 gennaio 2015

Alla base dei fatti di Parigi c’è una profonda frattura culturale: da un lato il massimo valore islamico, la religione, dall’altro il massimo valore illuminista: la libertà d’espressione.

Se l’11 settembre ha colpito al cuore il capitalismo, radendo al suolo le torri gemelle, l’attentato francese assume un significato simbolico ancora maggiore, nel momento in cui colpisce nel paese «più illuminista» d’Europa, uno dei maggiori valori illuministici, la libertà, intesa qui come libertà d’espressione, possibilità di mettere in discussione tutto e tutti, anche il dogma religioso.

Non dobbiamo pensare che Charlie Hebdo fosse semplicemente anti-islamico. È una testata di sinistra che ha sempre messo in discussione tutto e tutti, anche la religione cattolica, in un modo che, in un’Italia controllata dal Vaticano, sarebbe per noi improponibile.

Per questo il segretario di stato americano John Kerry ha potuto parlare di «oscurantismo» a proposito dell’attentato di ieri e il presidente Hollande lo ha descritto come un «atto di terrorismo».

Le immagini dell’omicidio del poliziotto parlano da sole. Fanno parte di quel repertorio che non vorremmo mai vedere, perché offende profondamente il nostro senso di giustizia. Immagini che Serge Daney definiva images au purgatoire. Testimonianze sospese in un limbo da cui non dovrebbero mai essere tolte, senza destare nel pubblico ripugnanza ed indignazione.

Mi è stato chiesto un commento sull’esecuzione del poliziotto disarmato: per me si tratta semplicemente di un’immagine di guerra.

Tutta l’azione contro Charlie Hebdo è concepita come un’azione militare, con forze speciali camuffate che riprendono l’assetto di azioni dei servizi speciali americani. La ferocia è motivata dallo stato di eccezione. Parliamo di terrorismo perché ci rifiutiamo di pensare che siamo in guerra. Però in questi giorni gira nelle sale cinematografiche un film come «American Sniper» dedicato ad un cecchino che, nel contesto del conflitto iracheno, ci viene presentato come un eroe (leggi l’intervista a Clint Eastwood, ndr). Così come eroi si presentano i kamikaze islamici.

Quanto accade oggi sotto i nostri occhi deve farci riflettere. L’unico motivo per cui riteniamo di non essere in guerra è che la guerra riguarda o deve riguardare la periferia del mondo, dove noi dovremmo «esportare» la nostra «democrazia» e i nostri valori e in cui invece esercitiamo da tempo lo stesso integralismo che, da parte islamica, percepiamo come barbarico.

Il rapporto che noi abbiamo con l’informazione è un rapporto continuo di rimozione, per cui le immagini di ieri sono cancellate, e ogni giorno nuove immagini guadagnano il centro della scena stabilendo, con la loro evidenza, il ruolo dei buoni e cattivi. Le immagini di ieri sono inequivocabili, sono immagini di barbarie, ma il problema è che noi non siamo più i portatori dei valori dell’illuminismo, ma abbiamo introiettato da tempo quella barbarie che ci sconvolge al di fuori di noi.

C’è un’origine in tutto questo. Un’origine che, essendo in contrasto coi valori di allora, doveva per forza rendersi invisibile. È la prima guerra del Golfo, la guerra di Bush padre, la «guerra intelligente» che colpiva solo gli obiettivi militari, scientificamente, e non doveva fare neppure un morto tra i civili. Per occultare quei morti, che invece non potevano non esserci, s’inventò una guerra senza immagini, senza riprese in campo lungo, solo come scie luminose, come in un videogame.

Sono seguiti l’11 settembre e la seconda guerra del Golfo, questa volta tradotta in immagini da parte dei reporter embedded, incorporati nell’esercito e quindi disposti a dare della guerra una visione di parte, eroica, epica, come lo è oggi il film di Eastwood.

Infine le immagini meno edificanti della guerra, prima proibite, hanno cominciato ad affiorare con Abu Grahib. Anche queste immagini non hanno sortito quella reazione di disgusto che si poteva presagire di una cultura illuminista. Sono seguite a valanga le rivelazioni di WikiLeaks e, recentemente, le rivelazioni su Guantanamo e le torture della Cia. Tutto questo repertorio, ma soprattutto la nostra tiepida reazione, ci dicono che un mondo è finito, che l’illuminismo è stato inghiottito dalla voragine post moderna che oppone all’integralismo islamico un nuovo integralismo occidentale. Bush è andato in Iraq parlando di Dio, le forze del Bene contrapposte all’asse del Male.

I gruppi di destra che in Europa combattono l’ondata islamica non fanno appello alla ragione ma alla nostra tradizione. E il fatto che nei paesi europei si cominci a pensare ad un avvento democratico al potere dell’islamismo è un altro segno che la Sharia non è più qualcosa di incomprensibile, di incompatibile con le nostre costituzioni illuministiche, ma comincia ad avere una sua «credibilità».

In questi giorni è prevista in Francia la pubblicazione del nuovo romanzo di Houllebecq, che presenta uno scenario prossimo venturo, nel 2025, di islamizzazione totale della Francia. Forse non siamo ancora lì, ma in questi anni il nostro cambiamento culturale è stato così radicale da rendere quest’ipotesi credibile.

In un momento come questo, non è così assurdo che la guerra cominci a manifestarsi nelle nostre strade, prima come terrorismo e rottura, poi come fatto consueto e quotidiano, come successe in Italia negli anni di piombo.

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