Editoriale

I notabili e il popolo eterno fanciullo

Lezioni greche L'Europa e l’illusione dei ’civil servant’ modello Bankitalia

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 9 luglio 2015

Ciò che colpisce nella prassi politica di Syriza, nelle dichiarazioni e nell’atteggiamento dei sui gruppi dirigenti, è la fiducia nei confronti del popolo. Lo si è potuto notare proprio nel corso di questa delicatissima fase politica, quando, tramite il referendum sulle misure imposte dalla Troika, proprio al popolo ci si è rimessi per sciogliere un nodo dei più intricati. Passando la parola direttamente al popolo greco, si è innestato un cambiamento di una portata probabilmente epocale, tanto nella ridefinizione del terreno della sovranità, quanto in quello delle scelte macro-economiche.

Si tratta della stessa sensazione di fiducia che traspare dalla rilettura dei discorsi dei grandi leader del movimento operaio del nostro Novecento. A rileggerli oggi, si ha la sensazione di venire trascinati all’intero di una travolgente vicenda collettiva: era il popolo ad esser chiamato in prima persona a farsi carico delle istanze di trasformazione. Non tanto, o non solo, di artifici retorici si trattava. Forte e diffusa era la coscienza che il movimento reale delle classi subalterne, più che la manovra congressuale o parlamentare, costituisse il motore della storia e sostenesse la spinta emancipatrice.

La storia della nostra prima Repubblica è, da questo punto di vista, la storia di una monumentale, forse irripetibile, operazione di simbiosi tra elaborazione politico-culturale e movimento dal basso delle masse popolari. In tutto questo giocò un ruolo fondamentale l’estrazione sociale ed il processo di rinnovamento di gran parte dei gruppi dirigenti, formati spesso in prima persona da elementi provenienti dalle classi subalterne; o che comunque con esse avevano condiviso le dure prove dell’esilio e della lotta armata al nazifascismo – esemplare, a questo proposito, la straordinaria biografia di un personaggio come Giorgio Amendola.

Quella medesima unità di intenti e fiducia la si ritrova nei volti e nelle parole dei protagonisti attuali della vicenda greca. La distanza con la sinistra italiana dell’ultimo ventennio appare siderale: essa, in tutte le sue varie e contraddittorie declinazioni, ha avuto timore, quando non orrore, del popolo.

La cultura politica post-comunista uscita maggioritaria dal crollo del 1989-1991, incarnatasi nel Pds e nelle sue successive trasformazioni, ha oscillato tra l’accettazione supina e provinciale delle ragioni dell’avversario di un tempo – il pop come surrogato del popolo – ed il rifugio in un togliattismo deteriore e malinterpretato, che nel popolo ha visto una mera massa di manovra pronta a tutto digerire, chiamata ad accettare passivamente le svolte impresse nel corpo del fu partito-chiesa dalla nuova élite dei “migliori”. Niente di più lontano dalla lezione reale di Palmiro Togliatti, che certo può essere sottomessa a critica anche severa, ma che risiede prima di tutto e soprattutto nella necessità di favorire – via il Partito – l’esplosione del protagonismo politico diretto delle classi subalterne, in netta discontinuità con le vicende passate della nostra compagine nazionale.

L’ala minoritaria erede della tradizione del movimento operaio, dapprima confluita in Rifondazione comunista e poi dispersa in numerose scissioni e diaspore, per introiezione estrema della sconfitta epocale si è sentita travolta dal “mutamento antropologico”, ed ha elaborato una retorica e perfino un’estetica della sconfitta. Intellettualmente vivace e ansiosa di novità, si è dispersa in mille rivoli, legando i propri destini a battaglie le più disparate, ma, risultati alla mano, incapace di rinsaldare un blocco storico ed incarnare un’alternativa reale.

Stante questo deserto, la parte da leone l’ha fatta una terza cultura politica, che semplificando potremmo chiamare post-azionista. Una cultura politica che ha avuto i suoi bastioni nella grande editoria e nella tecnocrazia dei civil servant, per lo più provenienti dalla Banca d’Italia. Questa eterogenea famiglia – resa diffidente dalle numerose, troppe, occasioni mancate della nostra storia – ha elaborato e affinato negli anni una sorta di impermeabilità alle ragioni di un popolo visto come eterno fanciullo, sempre a rischio di restare avviluppato dai propri bassi istinti e dalle altrui manovre demagogiche. Nell’invocazione del “vincolo esterno” questa parte della sinistra ha trovato la sua ragion d’essere, e all’Italia del vincolo esterno ha fornito una coerente narrazione intellettuale ed un personale tecnico di tutto rispetto, che ha guidato con straordinaria continuità le scelte strategiche del Paese a partire dal ’93 – con risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Ad essa si deve lo sdoganamento a sinistra del “governo tecnico”, per lunga parte della nostra storia recente la prospettiva più invisa ai partiti del movimento operaio. Cosa aveva spinto il Pci ad appoggiare la proposta della prima presidenza De Gasperi, se non il timore che i tecnici del pre-fascismo tornassero al potere, marcando la nascente repubblica con un indelebile segno neo-notabilare? E da cosa Pietro Nenni voleva salvare il Paese, se non da un “governo tecnico” – il “governo diretto degli agrari e degli industriali” nel gergo politico di allora, sogno proibito della destra liberale di Giovanni Malagodi – quando accettò di traghettare il Psi nel centro-sinistra organico?

Pur nella loro eterogeneità – i tentativi di farle convivere sono tutti naufragati – queste culture politiche della seconda repubblica sono state accomunate dalla mancanza di fiducia nel popolo, il quale popolo, cortesemente, ha ricambiato.

Ciò che i “pellegrini” italiani ad Atene in questi giorni si spera abbiano imparato è che il popolo, pur in presenza di sfide ardue, è dotato di un senso superiore di discernimento per comprendere cosa è bene per il popolo. I gruppi dirigenti sono chiamati a rinnovarsi, e a fornire un indirizzo politico chiaro. Senza temere il popolo, e senza vedere nel popolo un’indistinta massa incosciente, potenzialmente preda della demagogia e fanciullescamente incapace di autogoverno. Questo lo ha sempre pensato la destra, e continua a pensarlo. Chi sta dalla parte del cambiamento deve avere fiducia nel popolo.

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