Editoriale

I paradisi artificiali del cambiamento

I paradisi artificiali del cambiamento – LaPresse

Il professore si è fatto aiutare dalle citazioni, l’avvocato ha fatto la relazione sul contratto, il politico ha guadagnato qualche punto nella replica. Ma è evidente che con Giuseppe Conte, […]

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 6 giugno 2018

Il professore si è fatto aiutare dalle citazioni, l’avvocato ha fatto la relazione sul contratto, il politico ha guadagnato qualche punto nella replica. Ma è evidente che con Giuseppe Conte, il 65° governo della Repubblica cambia registro rispetto alle stagioni dei presidenti del consiglio leader unti dal popolo (di destra o di sinistra).

Paradossalmente, con i populisti al governo, il nuovo inquilino di palazzo Chigi si presenta come primus inter pares, con i ministri e i partiti nel ruolo di veri protagonisti della scena. A cominciare dai due vicepresidenti, gli artefici del governo che ieri ha chiesto e ottenuto la fiducia del senato.

Un ruolo tecnico, ribadito nella puntigliosità dei temi toccati dal lungo intervento, con qualche raro infervoramento. Un’immagine neutra in coerenza e in compagnia del 40% di ministri tecnici disseminati nella squadra di palazzo Chigi.

Se c’è un elemento politico, tipicamente grillino, che, invece, ha connotato il discorso di Conte, per il resto mero atto notarile, è l’insistenza sulla perdita di credibilità della politica e sul «vento nuovo» che ha determinato una «geografia inedita». In rappresentanza del cambiamento e in risposta a una politica malata grave, come la natura del voto e del governo di questa XVIII° legislatura dimostrano. Quindi l’insistito auspicio di una politica con la «p» maiuscola, declinata con la citazione del filosofo Hans Jonas sull’etica della responsabilità, sulla necessità di non giocare sul terreno facile «dell’immediato tornaconto». E forse a Di Maio e Salvini, seduti il primo a sinistra il secondo a destra del professore, saranno fischiate le orecchie.

Le tematiche del M5Stelle hanno attraversato e cucito insieme i passaggi più insistiti e sottolineati. La corruzione nella pubblica amministrazione, i privilegi della politica di fronte a un paese afflitto dalle diseguaglianze e della povertà, il conflitto di interessi che come un tarlo ne mina la credibilità, la priorità delle priorità dei diritti sociali (dal reddito e dalla pensione di cittadinanza alla sanità pubblica) indicati come «la prima preoccupazione del governo».

Musica per l’elettorato grillino di sinistra, che ha abbandonato le vecchie bandiere e i vecchi partiti perché, secondo il presidente del consiglio, oggi non ci sono forze che esprimono una visione del mondo dal momento che «le ideologie forti non esistono da decenni». La questione sociale al primo posto è la promessa delle promesse visto che, annota Conte, oggi è la finanza a comandare la politica, e, per invertire la rotta, non basta guardare solo al proprio paese, ma a un’Europa «che è la nostra casa ma deve diventare più equa».

Nessuno strappo sulle alleanze internazionali dell’Italia, paese atlantico e nella Nato, ma esplicita richiesta all’Europa di rivedere le sanzioni contro la Russia e di essere non più il guardiano dell’austerità ma il motore di un nuovo sviluppo capace di riformare il capitalismo. Naturalmente è lecito nutrire seri dubbi su come tutto questo si concilii con le parole d’ordine della destra: meno tasse a chi è già benestante, più armi per la legittima difesa, respingimenti per i migranti e ruspe per i ghetti dei rom, integralismo cattolico. E, sul nodo cruciale dell’immigrazione, che ieri ha spaccato il vertice europeo, non può bastare il doveroso richiamo alla tragica morte del bracciante maliano ucciso nelle campagne di Vibo Valentia, accompagnato dall’applauso di Salvini. Fare peggio di Minniti è difficile ma non impossibile.

A ravvivare con un fuori programma la meticolosa rassegna programmatica a un certo punto del discorso, al capitolo tasse, è intervenuto il classico lapsus. Nell’intemerata contro gli evasori gli è scappato un «paradisi artificiali» anziché «fiscali». Forse l’inconscio del presidente per caso lo ha voluto mettere in guardia dall’eccessiva benevolenza con cui aveva dipinto il salvifico governo del cambiamento. Meglio tornare con tutti e due i piedi dalle mirabolanti promesse alla dura realtà del Bengodi degli evasori.

Le opposizioni hanno criticato, attaccato, annunciato una leale dialettica parlamentare. Come peraltro aveva sollecitato lo stesso presidente del consiglio promettendo, a sua volta, ascolto e apertura verso chi, in corso d’opera, decidesse di aderire alla maggioranza.

In attesa di assistere a qualche passaggio sul carro del vincitore, per le opposizioni, in particolare per il Pd, si prospetta una lunga attesa di tempi migliori.

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