Il “contratto” che aumenta le disuguaglianze
Il 2 giugno italiani contro italiani, in trincee contrapposte, divisi sulla lettura delle regole, ed anche della Costituzione. Lo scrive Michele Ainis su Repubblica. E certo colpisce la mobilitazione di […]
Il 2 giugno italiani contro italiani, in trincee contrapposte, divisi sulla lettura delle regole, ed anche della Costituzione. Lo scrive Michele Ainis su Repubblica. E certo colpisce la mobilitazione di […]
Il 2 giugno italiani contro italiani, in trincee contrapposte, divisi sulla lettura delle regole, ed anche della Costituzione. Lo scrive Michele Ainis su Repubblica.
E certo colpisce la mobilitazione di piazze pro e contro il capo dello stato. Può mai questa inedita contrapposizione essere coerente con la funzione del presidente della Repubblica di rappresentare l’unità nazionale (articolo 87 della Costituzione)? Certamente no.
Il punto è che la norma costituzionale non si legge nel senso che qualunque cosa faccia il capo dello stato si ascrive automaticamente a quella rappresentanza.
Ne deriva invece che sul capo dello stato pesa l’onere di astenersi da tutto ciò che è con quella rappresentanza incompatibile. Ad esempio, rendendosi parte e schierandosi contro programmi e indirizzi generali di governo ritenuti non condivisibili, piuttosto che facendo valere la incostituzionalità di singoli atti.
Comunque, la vicenda che ha messo a rischio la legislatura è ormai chiusa, e si può lasciare ai seminari dei costituzionalisti.
Invece, va detto che gli italiani sono divisi davvero.
Ma su che cosa, e come?
Il paese è diviso sui diritti e sull’eguaglianza. Come potrebbe non esserlo quando esiste una Italia prospera e affluente e una che annaspa e rischia di affondare?
Se milioni rimangono sotto la soglia di povertà, e altri milioni rischiano ogni giorno di scivolare al di sotto?
Se assistiamo a migrazioni bibliche di centinaia di migliaia di giovani, molti di alta qualificazione, che abbandonano la propria terra in cerca di migliore fortuna?
Se in alcune regioni l’aspettativa di vita è più bassa, per il degrado ambientale e la sanità di seconda scelta?
E che dire della crescita inarrestabile delle diseguaglianze, in Italia più che in altri paesi, certificata da autorevoli studi e organizzazioni internazionali?
Sono queste le faglie che toccano la vita delle persone, e non l’astratta querelle sulle prerogative del capo dello stato.
Una divisione sulla Costituzione emerge in via indiretta come effetto collaterale: tra chi la vuole «svecchiare», e chi la vuole attuare.
Ma bisogna guardare oltre lo schermo delle parole e capire che i fautori del ringiovanimento tirano il freno sull’eguaglianza e i diritti.
La democrazia decidente non scende in campo per realizzarli più velocemente, ma per ritardarli sine die.
Quel che più preoccupa nel governo gialloverde sono gli accenti che non a caso insieme parlano di riforme costituzionali e attaccano alcune conquiste realizzate a fatica e parzialmente con anni di battaglie.
Non per caso, sentiamo parole preoccupanti sulla famiglia, le unioni civili, il fine vita, per non parlare dei sussurri contro la legge 194.
Salvini prova a rassicurare, ma è una toppa. Mentre manca qualsiasi progetto di fondo contro la crescita esponenziale delle diseguaglianze. Tale non riesce ad essere il reddito di cittadinanza comunque declinato, mentre si aggiungono i pericoli derivanti dalla regressività della flat tax e dalle richieste di maggiore autonomia e maggiori risorse per alcune regioni.
È questo che fa pendere decisamente a destra gli equilibri del governo giallo-verde. E che potrà spingere molti a portare il contenzioso in piazza.
Questo perché su un punto Ainis ha assolutamente ragione: che se il contenzioso tra partiti non si svolge in parlamento, si consuma nelle piazze.
Accade in Italia, ma non solo. Basta guardare alla Francia, dove un sistema elettorale che privilegia in termini assoluti la governabilità ha consegnato a Macron la maggioranza numerica in parlamento, ma non il paese.
Proprio per questo il parlamento deve essere costruito per ospitare i contenziosi, possibilmente tutti, e le voci devono rimanere libere.
Ma a tal fine si impone una legge elettorale adeguata, di impianto proporzionale; bisogna imparare di nuovo a fare politica – quella vera – ritrovando l’arte della mediazione e della sintesi; sulle assemblee non devono calare bavagli.
Preoccupano i venti in senso opposto, fra i barbari nuovi e quelli di prima.
Non si possono avere insieme parlamenti ampiamente rappresentativi e sistemi ipermaggioritari che diano vincitori certi, o regole che soffocano la libertà del parlamentare.
Visti gli studi all’estero del neo-premier e la pratica da ultimo fatta con l’impeachment, lo diciamo in inglese: you cannot have your cake and eat it, too.
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