Il funerale dello Stato
Un corpo, quello di Erich Priebke, e la sua bara, continuano ad attraversare le pagine dei giornali ed a mostrarsi attraverso le immagini televisive. Polemiche roventi si accendono sul tema […]
Un corpo, quello di Erich Priebke, e la sua bara, continuano ad attraversare le pagine dei giornali ed a mostrarsi attraverso le immagini televisive. Polemiche roventi si accendono sul tema […]
Un corpo, quello di Erich Priebke, e la sua bara, continuano ad attraversare le pagine dei giornali ed a mostrarsi attraverso le immagini televisive. Polemiche roventi si accendono sul tema dei suoi funerali: chi li ha celebrati, perché, dove, autorizzato da chi? In che luogo sarà stata sepolta la sua salma? Ministri degli Esteri europei e loro portavoce, apparati di polizia ed ecclesiali, sindaci, familiari, attivisti politici, tutti mesmerizzati da questa bara vagante. Questioni ed attenzioni ancora aperte, giustamente, dalla storia del morto; quella di un aguzzino nazista che sterminò centinai di vittime innocenti come rappresaglia. Ma questo clamore, quasi voyeuristico, amplificato dalla ricorrenza della deportazione degli ebrei romani, deve essere montato, per dispiegare tutto il suo significato simbolico, tutto il suo scandalo, in parallelo ad altri funerali, quelli mai avvenuti, in questi stessi giorni, dei morti nelle acque di Lampedusa.
Nella «società dello spettacolo», come dicevano i Situazionisti, solo ciò che si vede è; quello che non appare semplicemente non esiste. E allora, gli italiani hanno visto, ma solo per un breve momento, la lunga teoria delle bare, alcune bianche, allineate sul molo di Lampedusa e le teste chine dei politici, a cominciare da quella del Presidente del Consiglio, cattolico, che mormorava di funerali di Stato e di nostri fratelli morti. Ma poi, subitaneamente, come si conviene a ciò che deve essere cancellato dalla, sempre più breve, memoria collettiva, quelle stesse bare sono scomparse, sottratte alla nostra vista schermata come si dovesse smembrare un ingombrante corpo collettivo.
In fretta, clandestinamente, marchiandosi dello stesso reato cui sarebbero stati accusati quei morti se fossero stati ancora vivi, lo Stato le ha disperse tra vari luoghi di tumulazione, dove prenderanno la loro prima pioggia autunnale sotto una terra che non li ha ricevuti dopo il rito funebre che, da sempre, i vivi riservano ai morti. Il rito funebre è, appunto, un rito, e cioè la riproposizione, attraverso i gesti, di una visione. Si onorano i morti per onorare la vita che con loro trascorre, per imprimere nella memoria i loro tratti, per rammemorare chi siamo attraverso chi eravamo. Onorare quei morti con il rito funebre avrebbe restituito, anche attraverso le sue immagini, quel poco di dignità ed identità, che sono poi la stessa cosa, alle nude vite annegate nelle acque del «mare nostrum». Ma nel rito si nomina l’oggetto; si sarebbe dunque dovuto dire qualcosa, incidere con le parole pietose l’ascesso dell’ingiustizia che li ha spinti a migrare dai luoghi di provenienza per venire a morire qui, in Italia.
Se i morti erano, e sono, nostri fratelli, di quale fratello non si celebrano i funerali? Quale ragione di Stato ha impedito che questo avvenisse? Con quali motivazioni i nostri Creonte hanno cancellato la celebrazione? Non è dato sapere. Forse la fragilità delle larghe intese e la necessità di stabilizzarle ha impedito di trattare questi morti da morti, fosse anche attraverso una cerimonia semplice, paesana, come quella che avrebbe voluto il sindaco Giusi Nicolini. Ma questo silenzio, che emana da una assenza, da una morte non celebrata come tale, semplicemente scomparsa come quella degli altri corpi che ancora giacciono in fondo al mare, risuonerà ancora ed ancora, nelle voci dei sopravvissuti, sinché ciò che è giusto non verrà loro riconosciuto.
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