Editoriale

Il lavoro “autonomo” che nessuno vuol vedere

Il lavoro “autonomo” che nessuno vuol vederePulcinella e i saltimbanchi, 1790 – Giovanni Domenico Tiepolo

Tartassati Ecco perché la narrazione costruita sul cosiddetto "popolo delle partite Iva" non sta più in piedi

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 30 ottobre 2013

Nel 1585 veniva pubblicata a Venezia l’opera più celebrata di Tommaso Garzoni: La piazza universale di tutte le professioni del mondo. Uno straordinario repertorio di arti e mestieri, dai più usuali ai più stravaganti, con la descrizione dei relativi statuti giuridici. Garzoni spaziava dai saltimbanchi ai beccai, dai maestri di dadi alle sibille e ai traduttori di geroglifici, includendo financo banchieri e boia.

Nello scorrere l’elenco delle associazioni professionali che grava sul lavoro indipendente (aderenti al Colap) che si stanno mobilitando contro l’aumento della contribuzione previdenziale, (prevista dalla riforma Fornero, sospesa da Monti e oggi in via di ripristino) si ha l’impressione di affacciarsi su un mondo altrettanto vasto ed eterogeneo (sia pure depurato di strozzini e carnefici). Un mondo ben diverso da quella figura del lavoro autonomo che è stata costruita a partire dal professionista affermato ad alta parcella e indiscusso prestigio sociale, e quindi storicamente esclusa da diritti e garanzie di cui non avrebbe bisogno, ma non dalle pretese di una fiscalità che proietta sull’insieme del lavoro autonomo questo idealtipo professionale di alto profilo.

Su questo mondo eterogeneo che combina competenze e arte di arrangiarsi, abilità tradizionali e sperimentazione, socialità e competizione, la pressione fiscale e contributiva ( relative a prestazioni miserande e pensioni che non saranno mai percepite) è follemente sproporzionata, nella stragrande maggioranza dei casi, ai redditi effettivamente conseguiti. La cui limitatezza è per giunta considerata o una truffa evasiva o una colpa, stigmatizzata, secondo il linguaggio dell’ideologia dominante, come un investimento sbagliato del «capitale umano». Se non guadagni abbastanza o sei un evasore o sei un incapace, in entrambi i casi meritevole di punizione. Sul lavoro autonomo e sulle sue diverse «generazioni», sul cosiddetto «popolo delle partite Iva», la crisi si è abbattuta con una virulenza pervasiva e devastante, meno visibile dei grandi licenziamenti di massa, ma non meno, se non più foriera di regresso, sofferenza sociale e distruzione di risorse.

Che la «piazza universale» del lavoro autonomo raccolga condizioni di precarietà estrema e perfino di indigenza non dovrebbe essere ignoto a nessun osservatore in buona fede. E un aumento generalizzato della pressione fiscale e contributiva, in un contesto nel quale lo stesso direttore dell’ Agenzia delle entrate Attilio Befera ha dovuto riconoscere a denti stretti che esiste una «evasione di necessità», ha qualcosa di criminale. Tuttavia, finora non si è sfruttato solo lo stereotipo del professionista di successo, ma anche le divisioni, le diffidenze, le autorappresentazioni identitarie, quando non corporative, le ideologie competitive che attraversano una molteplicità così marcata di figure professionali e destini individuali. Blandendo da una parte presunti «giovani imprenditori» meritevoli e bacchettando, dall’altra, gli «schizzinosi» partoriti dalla fantasia arcigna di Elsa Fornero. Nonché, naturalmente, la contrapposizione classica, sempre insistentemente enfatizzata nonostante l’incertezza biografica che ne sfuma i confini, tra lavoro autonomo (potenzialmente evasore) e lavoro dipendente (obbligatoriamente tassato).

Il fatto che questa volta anche da parte della Cgil si registri una apertura nei confronti delle partite iva e una preoccupazione per misure che ne incrementino i già elevati costi previdenziali è il segnale che la vecchia narrazione sul lavoro autonomo non sta più in piedi. Una occasione che converrebbe cogliere mettendo da parte atavici timori di «appiattimento» e i quarti di nobiltà della propria specifica professione.

Fino a oggi la sinistra e i sindacati, nonché buona parte della tecnocrazia burocratica, si sono attenuti a un ragionamento che più sbagliato non poteva essere: se aumentiamo la pressione fiscale sul lavoro precario (compreso quello che si dà nelle forme del lavoro autonomo) allora renderemo meno conveniente per le aziende farvi ricorso incrementando così una propensione ad assumere a tempo indeterminato. Non c’è stato neppure bisogno di attendere i risultati concreti di questa politica. Fin da subito gli imprenditori hanno fatto sapere che nell’attuale congiuntura (ma probabilmente anche aldilà da essa) non ci pensavano neanche lontanamente a ingrossare le fila del proprio organico. E c’è da scommettere che nemmeno la tanto invocata riduzione del cuneo fiscale (anche qualora assumesse dimensioni meno risibili di quelle attualmente previste) otterrà risultati apprezzabili in questo senso. Si sono ottenute però una riduzione delle occasioni di lavoro intermittente e un peggioramento delle sue condizioni. Sui redditi del lavoro autonomo, in tutte le sue forma e gradazioni, resta ben piantato un gigantesco cuneo, che non si vuole vedere ed ancor meno rimuovere.

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