Il marchio Neymar
Futebol Con Brasile-Spagna si chiude domani sera la Confederation Cup. La prima vera passerella in mondovisione per il ventunenne fantasista, idolo assoluto del calcio verdeoro. È oggi il primo in assoluto tra i calciatori «commercializzabili», il quinto più pagato del pianeta
Futebol Con Brasile-Spagna si chiude domani sera la Confederation Cup. La prima vera passerella in mondovisione per il ventunenne fantasista, idolo assoluto del calcio verdeoro. È oggi il primo in assoluto tra i calciatori «commercializzabili», il quinto più pagato del pianeta
Vada come vada, la Confederation Cup che si conclude domani sera al Maracanà di Rio De Janeiro (finale Brasile-Spagna, a mezzanotte) sarà stata anche la prima vera passerella in mondovisione per Neymar. Il ventunenne fantasista, idolo assoluto del calcio brasiliano recente con la maglia del Santos, si trasferirà in settembre al Barcellona di Messi e Iniesta rompendo l’incantesimo così «Bric» di una popstar del futebol tutta coltivata in casa, la prima dai tempi di Pelè. Uno che aveva saputo resistere fin qui alle sirene del Real Madrid e del Chelsea in cambio della promessa di diventare il volto e la speranza del prossimo Mondiale. E lo sarà, se tutto va bene. Senonché di incantesimi, in questo torneo segnato da proteste di piazza mai viste contro l’economia dei grandi eventi sportivi, se ne sono rotti parecchi. Ci torneremo.
Le cifre parlano da sole: Neymar è già oggi il quinto calciatore più pagato del pianeta (24 milioni di euro l’anno). È gestito da una società, la Nr Sport, al vertice della quale c’è suo padre, ex calciatore di scarso successo poi operaio di fabbrica. Sul suo contratto col Santos possono accampare diritti una grande catena di supermercati e un fondo di investimenti persino, oltre al glorioso club calcistico. Ma gran parte dei guadagni gli derivano dai contratti con una lunga lista di aziende: Nike, Volkswagen, Unilever, Panasonic, e giù fino alla marca di batterie per auto Heliar e al deodorante per i piedi Tenys-pè, ai quali il numero 10 presta discreta faccia tosta e piccole virtù d’attore e ballerino in certi spot televisivi tinti di una tenera follia tutta brasiliana.
Non è una novità. A Pelè capitò di vendere – con un po’ meno di faccia tosta magari – Pepsi Cola e American Express nel suo soggiorno americano, e Viagra negli ultimi anni ai brasiliani. Ma qui la pubblicità appare addirittura una specie di ragione sociale del «marchio Neymar», quasi la vertiginosa sparizione del calcio dentro il gorgo della comunicazione. Per gli esperti di marketing, Neymar è oggi il primo in assoluto tra i calciatori «commercializzabili». Prende il posto che era di Kakà a suo tempo, e basti pensare allo svagato mutismo di Messi per capire il perché. Dicono anche, per capire meglio la dimensione della cosa, che buona parte del successo planetario di Ai se eu te pego, il sertanejo di Michel Telo che impazzava anche qui da noi la scorsa estate, si debba a un video virale nel quale il ragazzo ballava la canzone nello spogliatoio del Santos. E che tutto iniziò quando, nel 2010, Neymar si rasò a sorpresa una bella cresta in testa, segnò due gol e i ragazzini presero a imitarlo. Oggi tra Facebook e Twitter raccoglie venti milioni di seguaci.
È stato scoperto a 8 anni su campo di calcetto dove faceva impazzire gli avversari con finte e giochetti a velocità supersonica. Gli stessi che ripete in campo oggi, più vicini all’estetica dei videogiochi e al calcio di strada che al futebol arte consegnato dai brasiliani alla mitologia. Però il suo primo sponsor è stato Zito – leggendario componente del Brasile anni ’60 e di recente responsabile dei settori giovanili del Santos. Oltre ai gol e agli assist, le partite di Confederation Cup hanno messo inoltre in risalto un lato perfido che fin qui ignoravamo: quello del Neymar cascatore e villain, un lato che gode di discreto folklore in Brasile dove si ricordano suoi temibili litigi con l’allenatore e ripicche persino contro i compagni di squadra (il giorno che non gli fecero battere un rigore lui non passò più la palla a nessuno, dopo), che potrebbe attirargli qualche problema in Europa.
È fidanzato con un giovanissima attrice di telenovelas incontrata durante l’ultimo carnevale di Rio, Bruna Marquesine. Ha un figlio di due anni nato dalla relazione con una precedente fidanzatina, Carolina. Evangelico non troppo praticante (versa comunque una decima di 20.000 euro l’anno alla sua Chiesa), ha comprato alla sua famiglia tre case da sogno e gira in Porsche. Ce n’è abbastanza per farne un Justin Bieber del pallone, comunque carne da gossip. Pare che nella sua società circa 14 persone ricoprano incarichi di consigliere per indirizzarne le mosse pubbliche e professionali. Da qualche mese si è aggiunto a loro anche il publicist di Beckham, Simon Oliveira, che cercherà per ora sbocchi possibili per l’immagine del calciatore sui mercati asiatici.
È lecito perciò immaginare un certo lavoro di squadra dietro il tweet più importante di Neymar, lanciato nelle prime giornate della Confederation Cup: la foto di una bandiera brasiliana e un breve testo che annunciava il sostegno del calciatore alle manifestazioni di piazza che hanno costellato tutto il torneo. Si leggeva: «Potrebbe sembrare demagogia – ma non lo è – alzare la bandiera delle manifestazioni che si stanno tenendo in tutto il Brasile. Io sono brasiliano e amo il mio paese». Per arrivare al finale: «Entrerò in campo ispirato da questa mobilitazione». E gli si può credere. Nonostante la legnosità vagamente pubblicitaria del testo, lontana anni luce (è solo un esempio) da quella scuola di politica applicata al calcio che fu la democrazia corinthiana di Socrates e dei suoi compagni di squadra trent’anni fa. Altri tempi.
Anche Socrates venne in Europa, alla Fiorentina. E fallì. Qualcuno dice perché troppa politica, qualche altro perché poco calciatore. O per saudade. Socrates a parte, di certo il craque partirà per Barcellona provando invece a fare meglio di quello che da ragazzino fu il suo idolo, Robinho. Un nuovo Pelè di dieci anni prima, uno dei tanti, anche lui con la maglia del Santos, poi al Real, al City, tornato in Brasile e poi ancora al Milan, la cui stella non ha brillato tanto quanto prometteva. Perché alla fine – come dicono sempre i commentatori quando non hanno più niente da dire – questo è il calcio. E qui gli sponsor cominciano a tremare.
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